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Dopo due anni e mezzo dalla pronuncia assolutoria di primo grado, emessa il 9 novembre 2012, inizia finalmente a Palazzo di Giustizia di Genova l’appello del processo “Maglio 3”. La sentenza del GUP Carpanini aveva prosciolto tutti e 10 gli imputati in rito abbreviato, perché il fatto non sussiste, seppur con la formula dubitativa dell’art. 530 c. 2, c.p.p., che si utilizza quando la prova manca, è insufficiente o contraddittoria.
Alla vigilia del giudizio di secondo grado, può essere utile analizzare, nel dettaglio, l’atto di impugnazione promosso dalla Procura della Repubblica, nella persona del dott. Lari, per ricostruire correttamente la storia del presente procedimento.
Il gravame è sostenute da due richieste motivate:

1) RIFORMARE INTEGRALMENTE LA PRONUNCIA DI PRIMO GRADO E, AI SENSI DELL’ART. 597, C. 2 LETT. B) C.P.P., CONDANNARE TUTTI GLI IMPUTATI PER IL DELITTO LORO ASCRITTO;
2) PROCEDERE A NUOVA PERIZIA SU ALCUNE TRASCRIZIONI DI CONVERSAZIONI AMBIENTALI.

Le quasi 100 pagine di impugnazione vengono impiegate, soprattutto, per fondare la richiesta n. 1, con piglio deciso, dovizia di argomenti logici e fattuali, ampio sostegno giurisprudenziale. Per comodità espositiva, la struttura dell’atto di appello viene suddivisa in paragrafi.

Corte Appello penale

a) Il metodo mafioso
Il Pm chiede la riforma integrale della pronunzia di assoluzione e la condanna di tutti gli imputati, ritenendo che il Giudice di prime cure non abbia correttamente applicato i principi di diritto in punto “presupposti di fatto per integrare il 416 bis” e “metodo mafioso”.
In suo sostegno, Egli richiama la giurisprudenza cautelare della Cassazione relativa ai due imputati Garcea e Romeo: la Suprema Corte, riconoscendo i gravi indizi di associazione mafiosa in capo ai ricorrenti, aveva rigettato i loro ricorsi, evidenziando il rischio della “impossibilità di configurare l’esistenza di associazioni mafiose in regioni refrattarie, per una serie di ragioni storiche e culturali, a subire i metodi mafiosi propri, nella specie,della ndrangheta”.
D’altronde, “Quel che costituisce elemento essenziale della associazione, nella specie, di ‘ndrangheta, non e’ l’attualità dell’esercizio della intimidazione, ma la sua potenzialità, la sua capacità di sprigionare autonomamente, e per il solo fatto della sua esistenza, una carica intimidatrice capace di piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano a contatto con gli affiliati all’organismo criminale”.
In linea con la più recente, innovativa ed attuale interpretazione del 416-bis sulle mafie delocalizzate al Nord, il dott. Lari sottolinea come l’elemento organizzativo divenga sempre più centrale: il metodo mafioso – l’apparato strutturale dell’organizzazione – risulterebbe invece, in qualche modo, implicitamente provato, poiché trasferito dalla struttura-madre (‘ndrangheta), alle cellule-figlie (i singoli locali).
Di fronte ad un fenomeno di mafia al Nord, il giudice dovrebbe dunque dimostrare, esclusivamente, una capacità intimidatoria anche solo potenziale, derivante dall’associazione madre, cui una certa cellula fa riferimento (si veda anche la giurisprudenza che parla di ‘ndrangheta come di franchising del crimine, con concessionarie sparse un po’ ovunque, ma diretta emanazione dell’organizzazione centrale).
Il principio di diritto espresso dalla Cassazione è chiarissimo: secondo la dott.ssa Carpanini, però, quanto espresso in sede cautelare non può valere nel processo di merito. Questo è un errore concettuale: il principio di diritto, infatti, è e deve essere il medesimo; la differenza sta nel fatto che in tema di libertà personale la decisione deve essere sorretta dai gravi indizi, mentre nel processo di merito la prova va raggiunta “al di là di ogni ragionevole dubbio”.
Chiosa il dott. Lari: “Una volta dimostrato (quindi in questa fase occorre fornire prova piena) che l’organizzazione ripete le caratteristiche strutturali proprie dei locali costituiti in Calabria, che si ispira alle proprie regole interne, che mantiene collegamenti con la ‘ndrangheta propria calabrese, che ha collegamenti con i vari locali costituiti in Liguria, che ha un forte vincolo tra gli associati, che in sostanza ripete le caratteristiche della vera e propria ‘ndrangheta, ci si trova di fronte ad un’articolazione completa della “ndrangheta”, pienamente corrispondente al dettato dell’art. 416 bis c.p.”.
Tale impostazione si fonda su ciò che è stato recentemente conseguito nell’ambito del processo Crimine-Infinito, che ha riscritto la storia dell’associazione calabrese: si tratta di un’indagine che ha avuto, per la ‘ndrangheta, la stessa importanza storica che ebbe il primo maxi-processo palermitano per Cosa Nostra!
Per la prima volta infatti si è affermata l’unitarietà del sodalizio malavitoso che, al pari della mafia siciliana, avrebbe una struttura verticistica, con un organo (Il Crimine o Provincia) deputato a dirimere le controversie tra famiglie e impartire direttive agli affiliati.
Per quanto concerne il troncone milanese (Infinito), è già intervenuta, peraltro, la sentenza di Cassazione, che ha confermato tale visione, apponendo il suo sigillo a circa 90 condanne per 416 bis c.p.
E’ fondamentale ricordare, peraltro, che il 416 bis è un reato di pericolo, con un’evidente ratio di anticipazione della tutela penale: il 416 bis interviene proprio per evitare la consumazione di delitti-fine! Nei reati associativi “il legislatore punisce, in deroga all’art. 115 c.p., la semplice esistenza di un’associazione, costituita da tre o più persone e dotata di un minimo di effettività ed organizzazione, non essendo necessario che gli associati realizzino le finalità illecite avute di mira”.
La GUP Carpanini è di tutt’altro avviso: nelle terre storicamente scevre da contaminazione mafiosa occorrerebbe dimostrare, con particolare rigore, l’utilizzo dell’intimidazione e della violenza. Il giudice esige un’esteriorizzazione di tale metodo, una percezione diretta da parte della cittadinanza, una capacità intimidatoria effettiva ed attuale.
In riferimento al presunto sodalizio tratto a processo, Ella scrive “è indiscutibile […] che di ‘ndrangheta in molti casi si parli, di cariche, di riti e di fatti o personaggi ad essa riconducibili” ma è impossibile “affermare, con il necessario grado di certezza che si impone nella fase di giudizio di merito, che questo “essere” ‘ndranghetisti si concretizzi anche nel “fare” gli ‘ndranghetisti e, prima ancora, da un punto di vista logico oltre che giuridico, che la ‘ndrangheta che oggi è in Liguria e di cui gli attuali imputati sarebbero i massimi esponenti, abbia assunto i connotati che le sono propri nella terra di origine e realizzi, quindi, un’associazione criminale riconducibile all’art. 416 bis c.p.”.
Il giudice, che ammette candidamente l’esistenza di riunioni, riti di affiliazione, distribuzione di cariche ecc. non tiene minimamente conto della funzione repressiva anticipatoria della fattispecie criminosa. Lari sottolinea invece: “Le granitiche prove raccolte circa gli incontri con i vertici della “ndrangheta” calabrese, la chiara dipendenza delle decisioni importanti dai vertici calabresi, le condotte poste in essere sul territorio ligure con un chiaro ed indiscutibile condizionamento delle elezioni regionali, che un “metus e rispetto” evidentissimo di tutti i soggetti che si sono trovati a rapportarsi con gli odierni imputati”. E ancora: “La mafia punibile non è solo quella che si manifesta all’esterno, che attualmente incute timore nella popolazione circostante, ma anche quella “dormiente” o “silente” in grado di mascherarsi e infiltrarsi nel territorio in modo subdolo e silenzioso, che però mantiene intatta la propria pericolosità per l’ordine pubblico e la libertà di autodeterminarsi dei cittadini.
La Carpanini deduce la distinzione tra “essere” e “fare” il mafioso dalla nota sentenza Mannino (Cass. Sez. Un. 2005), che aveva definito il partecipante come “colui che risulta in rapporto di stabile e organica compenetrazione nel tessuto organizzativo del sodalizio, tale da implicare l’assunzione di un ruolo dinamico e funzionale, in esplicazione del quale l’interessato “prende parte” al fenomeno associativo rimanendo a disposizione dell’ente per il perseguimento dei comuni fini criminosi”. Ma va ricordato che tale pronuncia verteva su una ipotesi (poi non accolta) di concorso esterno in associazione mafiosa.
La Carpanini attacca: “Secondo la prospettiva accusatoria, invece, non solo dovrebbe prescindersi da qualsiasi accertamento circa il c.d. “metodo mafioso” come requisito concreto e attuale del sodalizio nel contesto ambientale ligure, ricavandolo semplicemente, in via del tutto presuntiva, dalla fama criminale che la ‘ndrangheta ha maturato nella regione di origine e dal conseguente riconoscimento normativo, ma si pretende di trarre la prova della “partecipazione” dei singoli imputati a detto sodalizio, nel senso sopra descritto, da dati meramente formali, quale la partecipazione a riunioni ritenute di ‘ndrangheta, senza alcuna verifica della consapevolezza e condivisione da parte di costoro di quelle che sono le finalità proprie dell’associazione mafiosa e, soprattutto, del “metodo mafioso” ad esse strumentale.”
Eppure, si consenta di ricordare che già la sentenza del Maxi-Processo di Palermo aveva agevolmente desunto la partecipazione al sodalizio malavitoso dal giuramento o dall’adesione formale, sulla base della massima d’esperienza secondo la quale l’affiliazione è sempre prodromica alla realizzazione di finalità associative! D’altronde, parliamo di spietate organizzazioni criminali, che “vagliano” attentamente il personale: entrare in queste cosche significa necessariamente voler perseguire il loro oggetto sociale. L’affiliazione è una cosa seria! “E’ la Corte di Cassazione che in tutte le sentenze più importanti ci ripete univocamente che partecipare a riunioni di “ndrangheta”, aderire alla stessa, rendersi disponibili ad essere “uomini di onore” , fornire un contributo ma anche minimo e di qualsiasi forma e contenuto , sono elementi sufficienti a configurare la partecipazione del singolo all’associazione mafiosa”, afferma Lari.
Per riassumere, quindi, “una volta provata, come nel caso di specie, l’esistenza ed operatività di una sotto-struttura di ‘ndrangheta – che ripete le caratteristiche di mafiosità tipiche dell’organizzazione centrale calabrese, tra cui la segretezza del vincolo associativo, l’assunzione di ruoli specifici e determinati da parte degli associati, la rigida osservanza del vincolo gerarchico, la presenza di rituali formali di affiliazione e promozione, l’assistenza economica ai carcerati, la penetrazione nella pubblica amministrazione (cfr. infra vicenda Saso/Praticò) – non occorre dimostrare altro per l’Ufficio inquirente: non occorre cioè la manifestazione esterna del metodo intimidatorio o il compimento di specifici atti delittuosi di intimidazione, né attendere che l’associazione prosperi nel territorio circostante creando una diffusa intimidazione, poiché ciò coincide con l’aggravarsi di un vulnus che è già ravvisabile nella sola esistenza di una compagine di stampo ‘ndranghetista”.
Anche perché il sintagma “metodo mafioso” non può significare “andare in giro ad “intimidire la gente” , ad atteggiarsi da “bulli”, ma è un comportamento molto più strisciante, nascosto ed insidioso (tale modus operandi emerge in tutta la sua dirompente forza nell’autorevolezza che gli imputati manifestano quando avvicinano importanti uomini politici in occasione delle elezioni regionali , ottenendo considerazioni ed ascolti che mai potrebbero avere dei “comuni” cittadini calabresi “emigrati al nord”)”.

La lettura della Carpanini, già discutibile sotto il profilo prettamente giuridico, risulta ancor più inaccettabile da un punto di vista di politica criminale: “affermare che è lecito costituire, promuovere o appartenere a locali di ‘ndrangheta, come fa invece il Giudicante in una visione ricostruttiva del fenomeno idilliaca ed un po’ miope, consente a questa associazione, come si è detto ben nota al legislatore e all’intera popolazione per le sue imprese criminali, di estendere la propria presenza nel nord Italia, così potenziando le proprie strutture e capacità operative. Parimenti richiedere la commissione di reati fine, l’effettiva intimidazione della popolazione o la rivelazione all’esterno dell’esistenza della compagine, oltre a travisare e tradire il dato normativo, permette alla ‘ndrangheta di rafforzarsi e accrescere il proprio potere in modo subdolo e silenzioso, essendo sufficiente per i mafiosi mantenere il segreto circa l’esistenza dell’associazione, non commettere gesti eclatanti, mimetizzarsi e muoversi sotto traccia nel tessuto sociale circostante confidando nella non punibilità della semplice esistenza del sodalizio, per quanto mafioso”.
Il codice penale, del resto, punisce già, separatamente, le singole fattispecie criminose poste in essere, normalmente, dai sodalizi mafiosi (poniamo, estorsione, usura, traffico di droga, ecc..); il 416 bis è una norma diversa, che deve essere apprezzata nella sua valenza autonoma!
Il problema principale del processo sta nel fatto che pur di fronte ad una comune ricostruzione dei fatti oggetto del procedimento (su cui non ci sono divergenze significative), la lettura, l’interpretazione meglio, che dei medesimi fatti si dà è radicalmente opposta. Per il pm, siamo di fronte ad un consesso fortemente radicato, che (è vero) viene “fotografato” prevalentemente in momenti di discussione, organizzazione, gestione di piccole problematiche interne, ma sicuramente è ambizioso e potente (si veda il ruolo primario giocato nelle elezioni regionali 2010); per il Giudice, diversamente, non si va al di là di un legame di tipo culturale, formale, quasi folkloristico: l’associazione in esame non configura un pericolo per l’ordine pubblico.
Ad esempio, il 14 agosto 2009 in un agrumeto di Rosarno don Micu Oppedisano (n° 1 della ‘ndrangheta) e Mimmo Gangemi, fruttivendolo di S. Fruttuoso (GE), parlano diffusamente e con estrema chiarezza di riti e cariche, di un picciotto che si comporta come se avesse la Mamma Santissima… ma cosa ci fa un besagnino di quartiere, che lavora a Genova, in quel posto? Di fronte alla massima autorità del crimine calabrese? O è un gioco di ruolo, oppure è ‘ndrangheta, con la ’N maiuscola. Delle due l’una!
Duole dirlo, ma si evince nel Giudicante l’incapacità di cogliere le stigmate dei mafiosi: alcuni dettagli andavano valorizzati (il fatto che al telefono non parlino mai di certe dinamiche, piuttosto fanno 1000 km; il negozio di frutta e verdura di Gangemi è teatro di un viavai incessante di pregiudicati calabresi e politici; emerge ad ogni sospiro rispetto e venerazione per il vecchio boss Mimmo).
Peraltro, osserva giustamente il pm, “non è possibile pensare che il ”metus” verso i cittadini siano esercitato dal “capo”; questi si limita a dare ordini ai suoi sottoposti che poi porteranno in giro il potere dell’associazione anche solo facendolo “trasparire” in sottofondo , ma basta questo per creare uno stato di intimidazione nel soggetto avvicinato. […] Gli odierni imputati, proprio perché partecipano a riunioni di “alto vertice” si trovano ad un livello superiore all’interno del sodalizio e quindi il loro agire è per così dire solo “decisionale”; l’attività operativa sarà poi deputata ad altri e non si può attribuire alla “scarsa” azione sul territorio dei vertici valenza probatoria negativa a meno di sovvertire ogni regola associativa e sostenere che debbono essere i capi a cercare i voti per strada, ovvero a compiere i piccoli reati che portano sostentamento alla vita del gruppo”.

b) Le dinamiche associative

Altro particolare significativo è la soluzione concertata dei conflitti tra associati, anche modesti, con il coinvolgimento del Gangemi, il n. 1 delle cosche in Liguria. In un caso si dice esplicitamente “riuniamo il locale”, ma il perito non lo trascrive. Non può non darsi rilievo al fatto che Gangemi si attivi per risolvere problemi in Calabria, tramite Compare Nino e Compare Pepé, “come a dire che rivolgersi a soggetti condannati per mafia e poi uccisi nell’ambito di faide, sia fatto neutro”.
Si assiste, altresì, ad un utilizzo assiduo, compulsivo, del noi: emerge un senso di fratellanza, di comunanza, che non può essere tipico di una mera comunità calabrese, questa è la ‘ndrangheta! E poi i modi dire, le parole, i toni…è tutto da manuale di mafia. Sono loro a parlare apertis verbis di ‘ndrangheta nelle conversazioni captate! Utilizzano un lessico tipico: Santista, Vangelo ecc…sbirro, malandrino, trascuranza, dote, ambasciata! A Michele Ciricosta, peraltro, sequestrano un formulario ‘ndranghetista al momento dell’arresto; sovente si ascoltano frasi del tutto non equivoche, come quella pronunciata da Bruzzaniti: “Io ho rischiato l’ergastolo mille volte …inc… per la dignità e per la bellezza della bandiera che portavo” . Di che bandiera si tratterà mai?
Plastico, ancora, è l’episodio dell’adulterio subito da Raffaele Battista, uno degli imputati: si discute del suo “distacco”, perché non ha saputo gestire il rapporto coniugale; dell’eventuale abbandono, o dell’uccisione (come regola imporrebbe) della moglie adultera. Regola di che, se non di ‘ndrangheta?

c) La finalità politico-elettorale del sodalizio

Ma soprattutto, almeno una delle finalità (alternative, lo si ricorda), previste dal 416 bis è stata palesemente realizzata (quando basterebbe averla di mira!). Si tratta del condizionamento elettorale esercitato sulle Regionali del 2010. E’ infatti dato incontestato che nel collegio di Genova Gangemi appoggiava la candidatura di Aldo Praticò, mentre Belcastro sosteneva Fortunata Moio, figlia di Moio Vincenzo, nipote di Moio Giuseppe, condannato all’ergastolo per fatti sanguinari di ‘ndrangheta! Ciò fu motivo di screzio all’interno del locale genovese. 
Nella circoscrizione di Imperia era invece Alessio Saso l’unico candidato, già eletto alle elezioni amministrative del 2004 con il maggior numero di preferenze, sostenuto con molto impegno da Mimmo Gangemi.
Per la Carpanini, anche di fronte ad intercettazioni eclatanti, si tratta di un semplice impegno della comunità calabrese nei confronti di candidati a sé vicini (Praticò è di Taurianova, un paesano), ma non c’è intimidazione nel procacciamento del voto, non c’è scambio elettorale.
Ora, partendo dal presupposto che il 416 bis, come noto, non postula la commissione del delitto in questione, ma richiede una generica finalità politico-elettorale, nella fattispecie che ci occupa, in realtà, è – eccome – ipotizzato anche il reato-fine! Tant’è che Alessio Saso ed Aldo Praticò sono a processo (separatamente) per corruzione elettorale aggravata!
Ma nemmeno questo scalfisce le convinzioni del Giudicante. Dovrebbe far riflettere, inoltre, che Gangemi, genovese, si attivi spasmodicamente per un candidato, Saso, di un altro collegio, quello imperiese: “Il politico, del resto, gli aveva garantito una sistemazione lavorativa per un suo giovane parente e prometteva di interessarsi anche ad un contenzioso che Gangemi aveva pendente con l’Agenzia delle Entrate”.
Quando Saso viene effettivamente eletto, Nunzio Roldi (condannato in primo grado a 7 anni per associazione mafiosa, dal Tribunale di Imperia, nell’inchiesta “sorella” La Svolta!) lo chiama al telefono e si congratula con lui, mentre Gangemi e Condidorio (imputati in Maglio 3) festeggiano in negozio, dicendo che ora dovrà rispettare i patti!
Altrettanto emblematica è la figura di Praticò, scelto da un “tavolo dei 15”: Egli non risulterà eletto, ma non può lasciare indifferenti il fatto che gli vengano annullati circa cinquecento voti, tutti per lo stesso motivo, per l’erronea collocazione del nome del candidato sulla scheda (e sul punto, ci sono intercettazioni davvero cristalline, nonché grottesche, del politico che insegna al boss come votare, con scarsi risultati tuttavia!).
Praticò alla fine ottiene più di 1700 voti validi (228 preferenze in più rispetto alle precedenti votazioni), a cui vanno sommati i 536 voti nulli.
Si ricorda anche un altro episodio significativo: quando Fabio Condidorio (figlio di Arcangelo), subisce un controllo da parte dei NAS all’interno del bar di famiglia di via Cesarea, immediatamente Arcangelo si reca nel negozio di Gangemi e gli riferisce l’accaduto; il boss la mattina dopo interpella Praticò, che promette di impegnarsi sul punto.
Almeno al finalità politico-elettorale, pertanto, parrebbe provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

d) Le riunioni tra affiliati

Come anticipato, poi, il processo ha documentato numerose riunioni/vertici/incontri:
– La riunione di Bosco Marengo del 27 dicembre 2009.
– Il vertice di Bordighera del 17 gennaio 2010 che, a dire del giudice, “se, certamente non è una semplice riunione conviviale tra amici, non è neppure chiaro a cosa fosse finalizzata, né di cosa i partecipanti abbiano discusso”. C’è tutto il gotha della ‘ndrangheta ligure, si parlava di elezioni regionali!
– il 6 febbraio 2010, Vincenzo Marcianò (condannato a 13 anni per associazione mafiosa, nella Svolta) fa visita a Gangemi per discutere della candidatura di Fortunata Moio, detta “Fortunella”, nel collegio di Genova nella lista di Alleanza Democratica-pensionati.
– Il giorno 28 febbraio 2010, Gangemi e Garcea si recano a Novi Ligure per partecipare alla riunione per il conferimento delle “doti” a esponenti della ‘ndrangheta del Basso Piemonte (Maiolo e Caridi); Gangemi afferma: “noi in Liguria.. abbiamo fatto qualcosa con la speranza di poterlo fare”. Ora, il titolare di un piccolo negozio di frutta e verdura di un quartiere di Genova non può “fare in Liguria” un qualcosa sulla base solo delle sue origini calabresi! Ma soprattutto, in occasione di tale rendez-vous, Mimmo Gangemi, in macchina verso Novi Ligure, spiegava a Garcea con nitidezza cristallina (dopo un accenno al valore della “famiglia”) la sua concezione di mafia al Nord (si tratta di una testimonianza di valore assoluto, perché esplicita, per bocca del supremo boss, i meccanismi di infiltrazione silenziosa finalizzata al controllo sociale, politico ed economico di un territorio): “Per dire in Riviera, per dire, c’è tutta la verdura, dico per dire un esempio non perché vendo verdura io, un altro che vende …col camion tutta la verdura e me la carico io e la metto dentro il magazzino, giusto” , e aggiunge “questo già è un controllo. L’altro che so… è un rappresentante di caffè e bar il caffè lo devi prendere …inc… questo vuol dire anche che uno ha per dire un posto in mezzo la strada di avere un dominio da solo, anche questo è un dominio legale un dominio normale, ed infine ….quando, quando non si ha il controllo stop, questo voglio dire”.
– Il 4 marzo 2010, a Siderno, presso la lavanderia Apegreen, si incontrano Domenico Belcastro e Giuseppe Commisso, alias “u’ Mastro” (considerato esponente apicale della “Provincia” ed esponente di vertice della società di Siderno, condannato nel “Crimine” per 416 bis): è emblematico di come le “vicende elettorali liguri” siano di interesse anche per i vertici calabresi della ndrangheta. E com’è che Commisso conosce e stima Michele (Ciricosta), attivo nel Ponente ligure?
– Il summit a Lavagna del 16 marzo 2010: grazie all’ambientale collocata nella Opel Astra di Condidorio, si intuisce che si trattava di una riunione delicata, di chiarimento, per “aggiustare” alcune questioni. In particolare vi erano delle frizioni con Garcea, un cristiano onesto ma non un malandrino cristallino. Sulla via del ritorno, Gangemi saluta Condidorio con la frase “…una ‘ndranghetella te la sei fatta dai.. ‘na scialata con il tuo compare”.
-Il successivo summit di Bosco Marengo del 30 maggio 2010, in cui i presenti discorrono del funerale di tal Riotto, che si sarebbe tenuto il giorno seguente. Dopodiché deliberano la costituzione delle due Società, Maggiore e Minore, in luogo della fondazione di un nuovo locale ad Alba (fatto per il quale il “piemontese” Zangrà aveva chiesto un consulto niente meno che a don Micu Oppedisano!).

d) Riflessioni conclusive

Alla luce di tutti questi elementi, di tutti questi incontri documentati, una domanda sorge spontanea: ha davvero senso fossilizzarsi sulla (presunta) assenza del metodo mafioso, come pervicacemente afferma il Giudice, ignorando un così consistente materiale probatorio? Se questi soggetti (pregiudicati illustri, lo si ricorda) si incontrano con tale regolarità, vorranno ben fare qualcosa di concreto? O vogliamo sostenere che passano il tempo a “parlare di aria fritta”?
Ma soprattutto, dal punto di vista di una collettività (in nome della quale la Giustizia va amministrata), ha senso che la magistratura giudicante affossi il lavoro degli inquirenti, proprio quando costoro sono in grado di individuare e colpire un sodalizio malavitoso con grande tempismo, prima che vengano realizzati eventi nefasti, ovvero prima che il condizionamento politico, economico ed amministrativo risulti irreversibile?
Merita di essere sottolineata anche la seconda richiesta motivata del Pm Lari, concernente una questione squisitamente probatoria: Egli insta, ex art. 603 c.p.p., per una rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, in relazione ad alcune trascrizioni di conversazioni ambientali piuttosto “lacunose”. Nonostante una generale corrispondenza tra la perizia del CTU nominato dal Tribunale e le trascrizioni della p.g., sono state rilevate alcune incongruenze soprattutto nelle parti in cui il perito scrive “incomprensibile”, laddove invece si tratta di espressioni del tutto “comprensibili”: in sostanza, nella trascrizione del perito vengono omessi alcuni riferimenti a tipici termini di matrice ‘ndranghetista, quali le parole “locale” e “dote”, che rendono indiziante l’intero discorso; così come, incredibilmente, manca in perizia il riferimento alla parola “camera di controllo”, che balza subito all’orecchio anche ad un primo ascolto superficiale, scrive il Pm.
Conclude pertanto il dott. Lari: “Vorrà codesta Ecc.ma Corte di Appello di Genova: 
previo rinnovo dell’istruttoria con nuova perizia che trascriva le conversazioni ambientali […] riformare integralmente la sentenza impugnata e condannare tutti gli imputati per il delitto di associazione di stampo mafioso alle pene che riterrà di giustizia”.
Teniamo presente che questi due anni e mezzo, tra la sentenza di primo grado e l’inizio dell’appello, non sono trascorsi invano. Nel frattempo infatti:
1) Il 19 Luglio 2013, nell’ambito del processo “Crimine”, Mimmo Gangemi è stato condannato dal Tribunale di Locri a 19 anni e sei mesi di reclusione per associazione mafiosa (a breve sarà pronunciata la sentenza di secondo grado, l’accusa ha già chiesto la conferma della condanna). Era stato arrestato il 13 luglio 2010 a Genova, insieme con Domenico Belcastro, anch’egli condannato, in rito abbreviato, nell’ambito di “Crimine” (costui, già in secondo grado).
2) La Cassazione, nel giugno 2014, ha confermato in via definitiva le condanne per associazione mafiosa nel processo Infinito (’ndrangheta in Lombardia), riscrivendo la storia del sodalizio calabrese (di cui sono emersi la vera natura, i mezzi utilizzati, le finalità).
3) Dopo l’assoluzione in primo grado (con una pronuncia-fotocopia rispetto a Maglio 3), gli imputati del processo “Albachiara” – relativo alla ’ndrangheta del basso Piemonte (gli ormai noti Pronestì, Caridi, Maiolo ecc.) – sono stati condannati in via definitiva (prima in Appello, poi confermato in Cassazione) per 416 bis c.p.: si tratta di un “precedente” particolarmente significativo, non solo perché si tratta di “compagni di merende” (come si è argomentato) dei protagonisti di Maglio 3, ma perché si tratta di un sodalizio colpito in una fase ancora silente, inerziale, in totale assenza di concreti atti intimidatori. Si ricorda che durante il processo, Bruno Pronestì (a casa del quale si recavano, periodicamente, i “nostri” Gangemi, Garcea ecc.) aveva ammesso di aver guidato un locale di ‘ndrangheta ma dichiarava di voler prendere le distanze dalle condotte che gli venivano addebitate.
4) Sulla questione tanto controversa dell’esteriorizzazione del metodo mafioso, si pronunceranno, a breve, le Sezioni Unite, investite del tema a proposito del locale di Frauenfeld (in Svizzera), legato alle ‘ndrine del Vibonese. Sarà interessante vedere come si esprimerà il Supremo Consesso Nomofilattico e si auspica che, al di là della decisione sul (dubbio) caso concreto, la Corte sappia dettare regole ermeneutiche di portata generale, che prendano in considerazione l’attuale fisionomia delle cosche.