In data 13/04/18 si è tenuto alla Casa della Maddalena (GE) un incontro formativo tra i ragazzi del presidio di Libera Francesca Morvillo, i seniores del Presidio Scaglione-Lorusso ed Enrico Fontana, attualmente uno dei vertici di Legambiente nazionale e già direttore di Libera. Il confronto tra le parti ha riguardato, in particolare, gli ecoreati commessi dalla criminalità organizzata di tipo mafioso, con riferimento ai gravi disastri ambientali che hanno sconvolto irreversibilmente la nostra bellissima penisola, soprattutto il Meridione, negli ultimi vent’anni. Ma che cos’è un’ecomafia? Innanzitutto col termine “ecomafia” si vogliono indicare tutte quelle associazioni criminali di stampo mafioso che incassano annualmente enormi somme di denaro tramite il saccheggio del patrimonio ambientale e culturale del Paese. Tradotto: traffico illecito dei rifiuti, ciclo illegale del cemento, scarico in mare o interramento di materiale tossico e radioattivo, e così via. Il termine è stato coniato per la prima volta nel 1994 dal magistrato Nicola Maria Pace e dallo stesso Enrico Fontana, in seguito alle numerose inchieste portate avanti dalla DDA e dai carabinieri ambientali in vaste aree del Meridione come le province di Napoli e Caserta o l’entroterra calabrese.
Le indagini a carico delle ecomafie si estendono a un campo di ricerca ben più ampio rispetto ai soli traffico di rifiuti e ciclo del cemento, e includono nella propria sfera investigativa anche reati che normalmente reputiamo trascurabili, a partire dai combattimenti tra cani, le corse illegali di cavalli, il traffico illecito di opere d’arte e specie protette. Il rapporto ecomafie del 2016, scritto e pubblicato da Legambiente in collaborazione con l’Arma dei Carabinieri, ha calcolato che i reati di natura ambientale hanno fruttato alle casse della malavita un fatturato pari a 13 miliardi di euro in un solo anno. Di questi 13 miliardi, 3 sono stati racimolati grazie alle attività citate poco fa. Gli altri 10, che costituiscono invece il vero malloppo dei bilanci delle ecomafie, provengono dal traffico dei rifiuti e dal ciclo illegale del cemento. È su queste due tipologie di delitti che d’ora in poi, sia per l’impatto ambientale esercitato da essi, sia per il mastodontico potenziale economico, concentreremo la nostra attenzione.
La lotta a queste attività criminose ha subìto una prima scossa all’indomani delle stragi del ’92-’93, quando la magistratura italiana, insieme alle più importanti leghe ambientali e alle forze dell’ordine, si è presa per la prima volta l’impegno di fronteggiare la radicalizzazione del fenomeno ecomafioso con arresti e provvedimenti giudiziari adeguati a carico dei suoi artefici. Così si è arrivati a piccoli passi nel 1994 al primo rapporto ecomafie, frutto di un’assidua collaborazione tra Legambiente e i carabinieri ambientali che si è preservata intatta fino ai giorni nostri. Nel 1995 è stata istituita la Commissione parlamentare per il traffico dei rifiuti, mentre nel 2015 i delitti
ambientali sono stati introdotti nel codice penale. Si è giunti allora a una classificazione su base legale più dettagliata e sicuramente più efficace delle precedenti. Da questa data, vengono infatti puniti a norma di legge i seguenti cinque reati:
Inquinamento ambientale
Disastro ambientale
Traffico e abbandono di materiale radioattivo
Omessa bonifica di discariche
Impedimento al controllo
Fino a poco tempo fa, la pena massima alla quale poteva essere sottoposto l’autore di un qualsiasi reato ambientale era costituita dagli arresti domiciliari o, in alternativa, una semplice ammenda.
CICLO ILLEGALE DEL CEMENTO
Il ciclo illegale del cemento è, insieme al traffico dei rifiuti, l’attività mafiosa più redditizia in materia ambientale. Tutto parte da un patto corruttivo tra il soggetto malavitoso e un personaggio di punta della pubblica amministrazione. Lo scopo: dare vita a nuove imprese operanti nel settore tramite cui percepire abusivamente enormi fatturati e, di conseguenza, addentrarsi nel tessuto economico (specialmente edilizio) e sociale senza dare nell’occhio. L’unica sicurezza che si ha è che tali imprese non ossequieranno alcun codice nazionale o europeo riguardo alla salvaguardia del patrimonio ambientale. Ma com’è che si approda a queste condizioni di sfrenato abusivismo?
Innanzitutto l’imprenditore mafioso si reca da una personalità nota e riverita, quasi sempre un politico, della località dove intende aprire lo stabilimento. Questi gli permette di avere nel giro di poche settimane tutti i documenti necessari per dare il via libera al progetto. Seguono le gare d’appalto truccate, la falsificazione di carte varie negli uffici regionali e comunali, anche con riferimento ai requisiti dell’azienda… In cambio, l’imprenditore si infiltra con passo silenzioso nel reticolato mondo della burocrazia e della media-politica provinciale. Supporta il proprio garante e il partito omologo nelle diverse iniziative promosse nei dintorni. Gli procura voti per le elezioni, ed è così che non solo accresce la sua immagine di influente uomo d’affari, ma diventa anche un punto di riferimento per l’ordinamento locale. Perché, però, un imprenditore legato ad ambienti malavitosi dovrebbe impuntarsi proprio nell’industria del cemento? Una prima spiegazione potrebbe essere individuata nella presenza di lunghi litorali sabbiosi (la Campania ne è un esempio perfetto) o di larghe porzioni di terreno ghiaioso in prossimità del corso dei fiumi (Calabria) soprattutto nelle quattro regioni a maggior concentrazione mafiosa: Puglia, Sicilia, Campania e Calabria. La seconda spiegazione, più importante, riguarda invece il controllo sul territorio: quel particolare, tutt’altro che insignificante, che contraddistingue l’associazione mafiosa da qualsiasi altra organizzazione criminale. Come si rispecchia una tale prospettiva di potere nel settore cementiero? Per trovare la risposta basta osservare quali sono e in cosa consistono le varie fasi della lavorazione. La prima: estrazione di sabbia, ghiaia e pietrisco. Ognuno di questi materiali, una volta miscelato, darà forma al calcestruzzo. L’attività estrattiva si rivela spesso, per le ecomafie, il primo passo verso il consolidamento del proprio dominio sulla rispettiva zona. Come abbiamo già detto prima, nulla fluisce se al di sotto non persiste un apparato corrotto. La seconda: frantumazione degli inerti negli appositi impianti. La Calabria ne è piena zeppa. Inutile dire in mano di chi si trovino. La terza: produzione e vendita del calcestruzzo. Quest’ultima fase porta a compimento il disegno prestabilito. Se gli impianti di frantumazione degli inerti subordinano alla propria funzione decine di km quadri di terreno, quelli di produzione del calcestruzzo sono capaci invece di tenere in pugno le imprese edilizie residenti in un’area di centinaia di km quadrati.
Il ciclo illegale del cemento finisce qui, ma i suoi risultati continuano a influenzare profondamente la realtà socio-economica dell’area depredata anche dopo il termine dei lavori. Non dichiarando alcun reddito, e quindi non pagando alcuna tassa, il bilancio positivo delle imprese designate raggiunge somme molto elevate, tali che la concorrenza imprenditoriale viene abbattuta in men che non si dica e le stesse imprese si affermano come unica fonte di risorse nella zona. Chiunque voglia partecipare da imprenditore a una gara d’appalto relativa (esempio) alla costruzione di una strada, per ottenere l’incarico dovrà rivolgersi per forza alla società X del mafioso Y, il quale, non solo gli permetterà di vincere la gara attraverso lucrose tangenti, ma offrirà anche tutto il calcestruzzo di cui c’è bisogno. Qualora il soggetto in esame decidesse di sottrarsi a questo giro di affari, fallirebbe immediatamente.
Un esempio celebre di quanto si afferma è il controllo totalitario che si è trovata a esercitare Cosa Nostra catanese a scapito di tutte le attività edilizie presenti nell’area della fascia etnea. Si tratta di un circolo vizioso difficile da annientare, specialmente se non denunciato da appropriati mezzi di comunicazione e dall’opinione pubblica.
TRAFFICO ILLEGALE DEI RIFIUTI
Negli ultimi decenni è capitato frequentemente in vaste aree del sud, dove un tempo erano in funzione impianti abusivi per l’estrazione di sabbia, ghiaia e pietrisco, di trovare sotto il livello del terreno ammassi consistenti di rifiuti, scaricati e interrati lì illegalmente. Una zona in particolare si è dimostrata assai vulnerabile a tali disastri ambientali: la cosiddetta Terra dei Fuochi, ossia quella lingua di terra compresa tra le province di Napoli e Caserta. Un posto bellissimo, paradisiaco, distrutto per sempre dalla voracità del degrado (eco)mafioso. Per comprendere bene le ragioni di tale fenomeno, è necessario però fare un passo indietro. Per cominciare, con traffico illegale di rifiuti intendiamo il controllo da parte della criminalità organizzata delle attività di raccolta, trasporto e smaltimento di ciò che (per semplificare) noi buttiamo nella spazzatura.
Come già accadeva per il ciclo del cemento, anche qui tutto ha inizio con l’acquisizione, per mezzo di tangenti e scambi di favori, di un appalto da parte delle associazioni mafiose, che sia per la raccolta, per il trasporto o per lo smaltimento. È evidente, tuttavia, che sarà proprio quest’ultimo, per i mafiosi, la maggiore fonte attrattiva verso gli ingenti capitali che vi sono concentrati. Smaltire rifiuti è sinonimo, infatti, di ingresso in un mercato nazionale molto proficuo. Entrato in funzione l’impianto per lo smaltimento, la domanda delle aziende di raccolta e trasporto dei rifiuti si estende rapidamente su tutto il territorio peninsulare. C’è chi porta rifiuti dal nord, dal sud, dal centro e così via. Da parte sua, l’imprenditore aumenta a dismisura le proprie entrate, proponendo prezzi che costituiscono la metà, se non addirittura un terzo, di quelli usuali. Ma come fa, in tali condizioni, a mantenere in positivo il rapporto guadagno-spesa dell’azienda e a trasformare essa in una miniera d’oro? A questo punto entra in campo il volto più barbaro e spregevole delle ecomafie. I rifiuti abbandonati nelle discariche abusive vengono eliminati dalla faccia della Terra nel modo più economico e, purtroppo, più nocivo a cui uno possa pensare. Bruciandoli en plein air, sotterrandoli nelle vecchie cave per il cemento oppure, ma questo riguarda una pagina di cronaca molto più complessa, gettandoli in mare. Si parla sia di semplici rifiuti domestici, sia di sostanze tossiche, sia di apparecchiature elettroniche, sia (per quanto concerne il tema delle navi dei veleni e delle discariche marine) di scorie nucleari. Una simile pratica può rivelarsi estremamente dannosa per la vita delle persone comuni. È sufficiente consultare alcuni recenti sondaggi sull’aumento dei tumori (anche infantili) in numerosi territori del Sud-Italia (e non solo) per avere una minima idea di ciò di cui stiamo parlando. La logica è la stessa del ciclo illegale del cemento: il controllo sul territorio. Il rilascio nell’aria di sostanze nocive, l’intossicazione delle falde acquifere, l’inquinamento delle varie porzioni di terreno fertile, con tutte le malattie che potranno scaturire dai prodotti effettivi. Non è questa una forma di controllo territoriale conquistata con le mazzette o con chissà quale repressione, ma mettendo in ballo la vita di migliaia di cittadini. Il primo cumulo di denunce si è accalcato alle centraline di polizia intorno ai primi anni ’90, quando, in quella che sarebbe diventata la famigerata Terra dei Fuochi, si cominciarono a percepire i sintomi di questa sorta di apocalisse ambientale: nubi rosse di aria soffocante, acqua colorata colante dai rubinetti dell’acqua potabile, verdura e frutta deformi.
Il fenomeno della Terra dei Fuochi ha poi raggiunto ben altri luoghi e ben altre regioni. Per esempio l’Umbria e il Lazio. Poi ci sono quelle regioni che, pur non avvertendo una significativa emergenza ambientale, fanno da emporio e rientrano nel raggio d’azione delle ecomafie. Fra queste vi è la nostra Liguria.
Come ha riferito la DIA di Genova, la Liguria è la sesta regione italiana per tasso di espansione criminale da parte delle associazioni mafiose. Nella classifica generale degli illeciti ambientali in Italia, ricopre l’ottava posizione. Nel solo traffico illecito dei rifiuti il nono, e il secondo nel Nord- Italia. Ci “ruba” il primato la Lombardia. Per compensare questa lieve mancanza, possediamo, col nostro onorabile 57% di rifiuti indifferenziati, il sistema ecologico più fragile dell’Italia settentrionale davanti alla minaccia mafiosa. Recenti episodi di corruzione e disastro ambientale si sono verificati in prossimità di Lavagna, di Chiavari e dell’entroterra. In provincia di La Spezia troviamo poi famiglie ‘ndranghetiste (Iamonte e Romeo-Siviglia) non secondarie nel traffico internazionale di rifiuti.
Gli stessi porti liguri sono stati, fino al 2001 (per quanto accertato), le basi di partenza delle famose navi dei veleni. Ossia tutti quei relitti finalizzati al trasporto di rifiuti tossici o radioattivi verso gli scali dell’Africa subsahariana, se non addirittura predestinate ad affondare in mezzo al mare con tutto il carico dietro. Una scorciatoia molto economica.
COME RISOLVERE I PROBLEMI
La ricerca di una risposta ferma e determinata a fronteggiare il fenomeno ecomafioso rappresenta una costante irrisolta degli ultimi quindici anni di storia italiana. Mentre gli interessi della criminalità organizzata sulle attività cementiere sono ancora assai difficili da contrastare (data la precarietà del sistema di controllo e dell’apparato statale), il tema del traffico dei rifiuti, invece, lascia alcuni sbocchi e spunti di riflessione (in qualche modo) positivi.
Un primo progetto era stato promosso dal Ministero dell’Ambiente qualche anno fa, denominato SISTRI (Sistema di controllo della tracciabilità dei rifiuti); consisteva in un fervido controllo sulle imprese di vario genere tale da vigilare sulla trasparenza di tutte le principali fasi del ciclo dei rifiuti. Il risultato atteso: eliminare qualsiasi residuo di sostanze tossiche dai piani per lo smaltimento. Per anni, l’inefficienza del sistema è stata parzialmente mitigata grazie a un fattore chiamato Cina. Perché la Cina? Ebbene, mentre noi italiani e l’UE approvavamo programmi e finanziamenti mirati a portare il numero complessivo di rifiuti differenziati al 73%, succedeva che di questo totale solo il 3% veniva riciclato e reintrodotto nel mercato. Tutto il resto, invece, veniva indirizzato verso gli impianti d’energia termica in Cina, dove erano appiccati e trasformati in elettricità. Poi hanno chiuso le porte a questi traffici intercontinentali, ed è lì che sono iniziati i veri problemi. Occorre senz’altro appoggiare, valorizzare e attuare le politiche a favore del potenziamento o dell’istituzione delle isole ecologiche e della raccolta differenziata. La maggiore problematica in termini di rifiuti ai giorni nostri è lo smaltimento e da questa attività ambientale deriva la maggior parte del denaro delle ecomafie. La legge italiana si pronuncia al riguardo incoraggiando gli organi politici e l’imprenditoria locali a promuovere la diminuzione delle discariche. La raccolta differenziata a larga estensione comporta, prima di tutto, nuove tecnologie, nuove macchine, nuovi impianti e nuovi cicli di funzionamento. Particolari rilevanti, capaci di rendere più ardua la scalata delle associazioni mafiose ai vertici del business ambientale, nazionale e internazionale.
Tutto parte ad ogni modo dalle riunioni di condominio e municipio, dall’approvazione dello stabilimento di isole ecologiche e bidoni differenziati nella zona.
Un altro spunto di riflessione su cui ragionare è la convenienza. La convenienza della legalità. Enrico Fontana ha fatto l’esempio dei gommisti e del decreto legge emanato nel 2011. La questione riguardava principalmente i costi per il trasporto degli pneumatici consumati dalle sedi dei venditori agli impianti di trattamento. Siccome fare da guardia a ogni gommista italiano al fine di sedare sul nascere ogni possibile ingerenza di traffici criminali era assai complicato, e tali spese costituivano un peso non da poco per le aziende coinvolte, da allora si decise di includere nel prezzo una tassa di contributo ambientale per il trasporto del materiale logorato verso gli specifici impianti. In tal modo, un gommista qualunque non doveva più versare di tasca sua i soldi necessari per sostenere un’operazione ineluttabile né, tanto meno, aveva più bisogno di rivolgersi al soggetto criminale di turno per risparmiare sull’operazione in generale. Rendere conveniente la legalità è un dovere dello Stato democratico. E insieme ad altri provvedimenti, come una seria politica di riduzione dei rifiuti e riciclo/riuso, consente davvero cambiare la realtà delle cose.