Vediamo, nel dettaglio, quali sono state le motivazioni successivamente depositate dalla Corte d’Appello, soprattutto in relazione al principale capo d’accusa sull’associazione di tipo mafioso (art. 416-bis del codice penale).
Dopo aver brevemente riepilogato i punti salienti della sentenza di primo grado – su tutti il supporto ai latitanti e i rapporti con il “capo locale” della ‘ndrangheta a Genova, Domenico Gangemi – la Corte d’Appello passa ad analizzare i motivi d’appello presentati dagli imputati Nucera Paolo, Nucera Antonio, Nucera Francesco, Rodà Francesco Antonio, tutti condannati in primo grado per il delitto di associazione mafiosa.
In particolare, secondo la difesa degli imputati non ci sarebbe la prova di una vera e propria esteriorizzazione del cd. “metodo mafioso” (assoggettamento, intimidazione, omertà) con la conseguenza che, di fronte ad un fenomeno di (presunta) “mafia delocalizzata” andrebbe necessariamente provato uno stretto legame con la “casa madre” (la ‘ndrangheta calabrese) che nel caso di specie sarebbe assente.
L’accusa – continua la difesa – non avrebbe provato né l’esistenza di una stabile organizzazione, né di riti di affiliazione né ancora la presenza di quel numero minimo di partecipanti necessario per dar vita ad una ‘ndrina; ancora, i contatti con gli esponenti della famiglia Rodà-Casile costituirebbero un “mero appoggio logistico ed economico determinato da solidarietà familiare” e i contesti che vedono coinvolti gli imputati sarebbero estranei a logiche e/o assetti criminali; con particolare riferimento a Paolo Nucera, viene infine ribadita la sua assoluzione, per fatti risalenti al 2010, nell’ambito del processo Maglio 3.
Il Collegio d’Appello ha ritenuto infondati i motivi presentati dalla difesa. In primo luogo, nella motivazione il Collegio precisa che i numerosi richiami della sentenza di primo grado ad altre e più risalenti sentenze sul fenomeno mafioso in Liguria, avessero lo scopo non di determinare automaticamente la responsabilità degli imputati per fatti successivi – come sostenuto dalla difesa – ma solo quello di “descrivere il contesto storico ed ambientale che ha portato al radicamento attuale della ‘ndrangheta in Liguria”.
Quanto alla mancata prova di “riti di affiliazione”, il Collegio ricorda come siano stati gli stessi Gangemi e Condidorio (il primo condannato in separato processo) a commentare, di ritorno dalla riunione tenutasi nel 2010 nell’hotel di Paolo Nucera Paolo, le formule ivi utilizzate, confermando “la messa in atto di chiari riti di ndrangheta”. Con riferimento poi alla precedente assoluzione – per fatti contestati fino al 2012 – di Paolo Nucera, il Collegio ricorda altresì che questa era stata pronunciata per “non aver commesso il fatto” (e non per “insussistenza del fatto”) non essendo stata inizialmente raggiunta (come invece avvenuto in seguito) la prova di una affiliazione dello stesso Paolo Nucera all’associazione con ruolo di capo; in altre parole, sostiene il Collegio, da questa iniziale assoluzione (per fatti pregressi) non può discendere la prova dell’inesistenza di una ‘ndrina in Liguria.
La Corte d’Appello ritiene poi errata la valutazione della difesa in ordine all’assenza dei due requisiti sintomatici dell’esistenza di un locale di ndrangheta: l’esternazione di metodo mafioso e il collegamento con la casa madre calabrese.
Nel dettaglio, scrivono i giudici che “benché, sia sufficiente l’accertamento anche di uno solo dei due requisiti, nel caso in esame essi sussistono entrambi: l’associazione risulta collegata alla locale di Condofuri e ‘ndrina dei Rodà Casile – a cui viene dato appoggio organizzativo e supporto economico – e il metodo mafioso è esteriorizzato anche attraverso la consumazione di reati fine che sono tipici della criminalità organizzata (primo fra tutti la gestione congiunta di un arsenale di armi clandestine, che evidenzia la sussistenza del vincolo e l’esistenza di scopi comuni, l’infiltrazione nei gangli dell’economia locale, il condizionamento illecito dell’attività amministrativa e politica pubblica; la consumazione di reati contro il patrimonio e connotati da violenza alle persone)”.
Ulteriore rilevanza assumono i numerosi rapporti (soprattutto di Paolo Nucera) con elementi di vertice di altre locali, dal Basso Piemonte a Ventimiglia, passando per Genova. In particolare, il Collegio ricorda di come Marcianò (già capo della locale di Ventimiglia) avesse convocato Paolo Nucera “per dirgli di intervenire a tutela di un suo protetto su una questione con dei siciliani che si verificava sul territorio di Lavagna”.
Altrettanto decisivo, secondo il Collegio, è il rapporto degli imputati con la ‘ndrina Rodà-Casile: se la difesa sostiene che si trattasse solo di “un supporto organizzativo e logistico ai diversi membri della famiglia Rodà Casile, [..] mera espressione di ospitalità e cortesia fra soggetti legati da vincoli di parentela ed affettivi, maturati nella terra di origine”, la Corte d’Appello non è dello stesso avviso, e sul punto sottolinea come Paolo Nucera fosse solito offrire ospitalità (senza alcun bisogno di preavviso o prenotazione) anche a persone a lui non legate da vincoli di parentela, e delle quali Paolo Nucera ometteva la registrazione onde evitare qualsiasi tipo di tracciamento. Se a ciò si aggiungono il contenuto (le vicende processuali di alcuni soggetti) e la segretezza delle conversazioni, nonché gli ingenti esborsi economici, non può che concludersi per la sussistenza di un vero e proprio supporto logistico tipico dell’associazione criminale.
Il collegio ricorda poi come dal dibattimento di primo grado sia emersa, senza possibilità di dubbio, “la prova della forza di intimidazione che sprigiona dal gruppo e le condizioni di assoggettamento ed omertà”. Secondo la Corte, l’esternazione del metodo mafioso – che sarebbe già di per sé solo sufficiente a comprovare l’esistenza e l’operatività della locale, indipendentemente da collegamenti e repliche di schemi strutturali e modalità di azione della “casa madre” – emerge da una serie di fattori ampiamente documentati in primo grado, fra cui: 1. “il monopolio ultradecennale della famiglia Nucera nei servizi di gestione dei rifiuti nonostante rilievi critici della commissione antimafia, già nel 1995”; 2. “l’assoggettamento dei pubblici amministratori alle pressioni e intimidazioni dei Nucera affinché tale monopolio non fosse interrotto”; 3. “la piena consapevolezza degli amministratori pubblici, passati e presenti, della “mafiosità” della famiglia Nucera; della loro pericolosità e di quella di Rodà, della forza del gruppo di influenzare con modalità mafiose sia l’amministrazione che il contesto sociale di Lavagna, tanto da essere stati oggetto, nel corso degli anni, di tentativi di “anestetizzazione” da parte di pubblici amministratori”.
Continua la Corte affermando che “la qualifica di “mafiosi” rivolta alla famiglia Nucera è accompagnata dal racconto di condotte che la rispecchiano pienamente, da espressioni di timore di ritorsioni se si contrasta il gruppo e da accertamento di attuali condotte criminose”: determinate espressioni, come i riferimenti di Antonio Nucera al fatto che “i calabresi ammazzano” o le minacce di finire “in fondo ad un buco dentro ad un sacco della spazzatura” rivolte dallo stesso ad alcuni amministratori locali, non possono essere ricondotte “ad intemperanze caratteriali di un bisbetico e folkloristico vecchietto”, ma devono ritenersi espressive di un vero e proprio metus tipico dell’associazione mafiosa.
In conclusione, la Corte ritiene erronee le difese degli imputati, nella parte in cui ritengono che il primo giudice abbia desunto la sussistenza dell’associazione solo dalla consumazione, di reati tipici dell’associazione. I reati fine – scrive la Corte – sono elementi che si aggiungono a tutti gli indici rilevatori ampiamente descritti, e costituiscono ulteriore prova della esistenza del sodalizio; tali reati comprovano inoltre l’affiliazione di tutti gli imputati, e ciò vale sia per la gestione comune e organizzata dell’arsenale di armi, in cui sono coinvolti tutti gli imputati, sia per l’attività di condizionamento del voto e della vita amministrativa, finalizzata all’obiettivo di illeciti guadagni correlati alla gestione dei rifiuti.
Fra tutti gli imputati – conclude il Collegio – “vi è flusso comune di conoscenze, comunanza di interessi, coinvolgimento personale, in attività tipiche dell’associazione. Deve essere quindi condiviso il giudizio di responsabilità nei confronti di tutti gli imputati”.