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Comuni di Quiliano e Vado Ligure, provincia di Savona: in questo ambito territoriale, da oltre 45 anni, campeggiano imponenti due alte ciminiere, visibili da molti chilometri di distanza, le prime ad accogliere i vacanzieri, provenienti dal Piemonte, e ad augurare il “bentornato” ai residenti, che fanno ritorno a casa. Due grosse torri, a bande bianche e rosse: sono il simbolo della centrale termoelettrica a carbone, di proprietà per metà della società Tirreno Power, che nel 2003 la acquistò dall’Enel, e per metà della francese Gaz de France-Suez; si tratta di due imponenti unità a carbone da 330 megawatt di potenza ciascuno, a cui se ne affianca una terza, da 760 megawatt, funzionante a metano. Da quando esiste, la centrale di Vado Ligure ha portato lavoro e investimenti nella città. Ma, si sa, non è tutto oro quello che luccica… Spesso, nei grossi centri di affari, dove girano ingenti somme di denaro, sono presenti zone d’ombra, nelle quali proliferano gli accordi sottobanco e gli interessi individuali possono entrare in conflitto con quelli della comunità. Proprio su tali profili sta indagando la magistratura savonese, le cui ultime determinazioni lasciano intendere che ci sarà ancora da lavorare per accertare definitivamente che cosa sia accaduto, di illecito, intorno alla centrale Tirreno Power.
Ma andiamo con ordine. Nel 2007 si iniziò a parlare del potenziamento della centrale tramite l’aggiunta di un nuovo gruppo a carbone. I cittadini, preoccupati per le conseguenze nefaste che tale investimento avrebbe potuto provocare sulla loro salute, si attivarono immediatamente per andare a fondo nella questione e capire quali potessero essere gli effetti negativi, per loro e per il territorio, a fronte di possibili guadagni di carattere economico. Non ci volle molto tempo per rendersi conto che la zona, al netto di tale paventato investimento, pativa una già preoccupante situazione di degrado ambientale. Senza dilungarsi, basti qui ricordare che venne rinvenuta una concentrazione di metalli pesanti e policlorobifenili molto superiore ai limiti consentiti per legge, alla foce del torrente Quiliano che ivi scorre; venne diagnosticata, altresì, una situazione di c.d. “deserto lichenico” nell’hinterland di Vado Ligure – Quiliano, grave indizio di inquinamento dell’area interessata. Racconta, inoltre, qualche cittadino della zona che i terrazzi delle abitazioni, ripuliti al mattino, ritornavano dopo pochissime ore a essere coperti di una scura coltre di sporcizia, composta da polveri sottili che, come afferma il Piano per la qualità dell’aria della Regione Liguria 2006, provenivano sicuramente dalla centrale termoelettrica.
Ma l’aspetto più preoccupante venne confermato dall’Ordine dei medici della zona, che nel 2010 affermò che la centrale di Vado-Quiliano rappresentava un pericolo reale e concreto per la salute e la vita dei cittadini della provincia di Savona. A conferma di tale preoccupante analisi, stavano i dati Istat sulla mortalità nel savonese, nettamente più alta rispetto alla media nazionale; in particolare, quella legata a tumori e malattie dell’apparato cardiocircolatorio, nonché cerebrovascolari.
La situazione, quindi, non appariva idonea a consentire l’ampliamento della centrale ipotizzato nel 2007. Ma la bomba ormai era pronta ad esplodere. Così, nel 2011, la Regione Liguria concesse la sua autorizzazione in blocco ai nuovi investimenti e ai gruppi già presenti nella centrale; nel marzo 2012, anche il Ministero dello sviluppo economico si pronunciò favorevolmente.
Questo provocò le ire dei cittadini singoli, e dei comitati, formatisi nel frattempo contro il carbone (in particolare Uniti per la salute e Rete savonese Fermiamo il carbone), nonché delle associazioni ambientaliste tra cui Arci, WWF, Legambiente e Greenpeace. Dalla loro giocava il fatto che gli amministratori della centrale non avevano mai nemmeno provveduto a coprire il deposito di carbonile a cielo aperto; questo, nonostante nel 2011 la società fosse riuscita a distribuire 700 milioni di euro di dividendi. La situazione ormai era caotica: fu allora che, mossa anche e soprattutto dal documento dell’Ordine dei medici di cui sopra, scese in campo la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Savona. Le indagini, coordinate allora dal Procuratore della Repubblica Francantonio Granero e dal sostituto Chiara Maria Paolucci (e attualmente dai sostituti procuratori Daniela Pischetola e Vincenzo Carusi), vennero condotte in due filoni: un primo, per i reati ipotizzati di disastro ambientale e omicidio colposo plurimo, per i danni causati alla salute della popolazione; l’altro, per abuso d’ufficio, con riferimento alle condotte societarie che permisero l’elusione delle norme di sicurezza e di tutela dell’ambiente, il tutto con riferimento a fatti commessi dal 2000 al 2007.
Quanto vi sia di preoccupante, circa il comportamento delle persone che avrebbero dovuto lavorare per dotare la cittadina di Vado Ligure di un impianto sicuro ed efficiente, si capisce poi da alcuni fatti che potrebbero definirsi paradigmatici di un certo approccio al problema.
Anzitutto, va dato conto del fatto che, secondo la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Savona, il CdA dell’impresa non aveva realmente intenzione di ammodernare l’azienda, conformandola ai parametri di sicurezza richiesti; ciò si sarebbe evinto dall’esame dei verbali delle riunioni dell’organo amministrativo della stessa. Inquietante, al proposito, è un’intercettazione ambientale coinvolgente due dirigenti del Ministero dell’Ambiente, nella quale, parlando della legge che impone di coprire i depositi di carbone, esplicitano il rischio di fare una porcata….se si volesse fare una cosa pulita…questa cosa pulita non si potrà fare”. Fu proprio l’ex pm titolare dell’indagine, il dott. Granero (oggi in pensione), nel corso di un’audizione presso la Commissione Parlamentare d’Inchiesta sul ciclo dei rifiuti, a parlare di “una pubblica amministrazione vassalla del mondo finanziario”. Sempre tra i documenti prodotti dalla medesima Commissione, si legge che “tra le condotte contestate rientra la gestione illecita delle ceneri di carbone e delle ceneri da olio combustibile denso”.
Ancora, c’è il problema delle A.I.A. (autorizzazione integrata ambientale) che, a norma di legge, dovevano essere richieste per gli impianti a carbone e per quello a turbogas: le richieste relative a tali autorizzazioni vennero presentate unitamente a quella relativa all’impianto nuovo da costruirsi, di cui si parlava più sopra. E l’autorizzazione ambientale venne così concessa unitariamente per tutti gli impianti, compresi quelli già presenti ed estremamente inquinanti. È perlomeno lecito dubitare che, se fosse stata richiesta separatamente per i vecchi gruppi a carbone, non sarebbe mai stata concedibile senza violare apertamente la normativa a tutela della salute pubblica e dell’ambiente. L’autorizzazione, a scanso di equivoci e manco a farlo apposta, venne poi revocata col sequestro della centrale, avvenuto l’11 marzo 2014.
La centrale, attualmente, versa in uno stato di crisi finanziaria, nonostante abbia privilegiato di una ristrutturazione del debito nel 2015 e ne abbia ottenuto una seconda pochi mesi dopo, sempre nel 2015, sulla base di nuovi piani industriali. Tali piani, però, presentano la difficoltà di essere legati a un’autorizzazione integrata ambientale, rilasciata dal Ministero dello Sviluppo Economico, subordinata a prescrizioni che l’impresa Tirreno Power considera troppo gravose e tecnicamente impossibili da attuarsi. E, a onor del vero, va detto che la concentrazione di polveri sottili nell’aria, a distanza di due anni dalla chiusura degli impianti a carbone, non risulta significativamente migliorata.
Come noto, nei mesi scorsi sono state notificati gli avvisi di conclusione delle indagini preliminari a ben 86 persone, tra dirigenti di Tirreno Power, amministratori locali, funzionari di Comuni, Regione ed enti minori, accusati a vario titolo di omicidio colposo o disastro ambientale. Si vuole qui ricordare, inoltre, che secondo le perizie in mano alla Procura, tra il 2005 e il 2012 sono stati oltre 2000 i ricoveri di adulti per malattie respiratorie e cardiovascolari, e nello stesso periodo sarebbero stati 586, sempre secondo la Procura, i bambini ricoverati per patologie respiratorie. Tra i nomi di coloro che sono stati sottoposti a indagini preliminari, ricordiamo gli ex dirigenti Massimiliano Salvi, Pasquale D’Elia, Emilio Macci, Stefano La Malfa, Gianni Biavaschi; l’ex presidente della Regione Liguria, Claudio Burlando, gli ex assessori regionali alla Salute e allo Sviluppo Economico, Claudio Montaldo e Renzo Guccinelli, i sindaci di Vado e Quiliano. Ed è notizia dei giorni scorsi che la Procura di Savona ha deciso di scorporare l’indagine relativa alle morti causate dall’inquinamento della centrale, che si stimano essere 427 (ma all’inizio dell’inchiesta sembravano essere vicine alle 500), dal resto del fascicolo. Questo, per poter lavorare più serenamente e con le opportune metodologie di indagine su un campo da sempre molto delicato: occorre dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, il nesso di causalità tra l’attività di industria/fabbrica e le morti “sospette” di chi vive nelle aree ad essa circostanti (in maniera non molto diversa dal caso delle morti per mesotelioma pleurico, che hanno segnato la nota vicenda Eternit). I tempi si prospettano ancora lunghi, prima di poter addivenire a una possibile, prima, pronuncia giurisdizionale su questi fatti. Non resta che aspettare pazientemente il lavoro della Procura della Repubblica e del Tribunale di Savona, senza mai dimenticare il dramma occupazionale che sta coinvolgendo centinaia di lavoratori. Anche loro vittime di una situazione tragica, su cui non si è saputo intervenire prima, provando a immaginare un futuro che garantisse salute, lavoro e qualità ambientale.