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“Fabio, hai visto? Qui ci abitava un killer della camorra. Il bene è stato confiscato ed oggi ospita un gruppo di convivenza, e voi ragazzi potete venire a giocare quando volete! Non è bello?”.
“Era chiù bell’ prim’”
“E perché scusa?”
“Perché era casa di mio zio!”.

 Confesso che nel sentire una tale risposta sobbalzai. Avevo appena finito di giocare a ping pong con tal Fabio, nipote diretto di Pasquale Spirto, condannato a due ergastoli per il coinvolgimento in vari omicidi. Noi di Libera dormivamo proprio nel bene confiscato al killer, una graziosa villetta nel cuore di San Cipriano d’Aversa.
Da qualche anno l’associazione organizza, nell’ambito del progetto E!state liberi, una serie di campi estivi localizzati in tutta Italia, per far conoscere i beni confiscati e svolgere cultura della legalità. Dopo un anno trascorso a preparare la giornata nazionale di Libera, tenutasi a Genova il 17 marzo, ci sembrava necessario toccare con mano la realtà di cui tanto ci eravamo occupati. Verso maggio decidemmo, in cinque, di partecipare ad uno di questi campi. Trovammo posto a San Cipriano d’Aversa, un piccolo comune del casertano situato tra Casapesenna e Casal di Principe, con i quali sino a pochi anni fa costituiva l’unico comune di Albanova. Fu così che alle 3 di mattina di domenica 15 luglio partimmo da Genova, in quattro, sulla mia modesta c1, carica di bagagli e di aspettative. Dopo sette ore di viaggio siamo giunti a Napoli, che desideravamo visitare prima di calarci nella realtà del campo estivo. Il mare di Posillipo, Piazza del Plebiscito, il centro storico, il quartiere del Vomero… I quartieri spagnoli, il lungomare, il Maschio Angioino, Palazzo Reale… Napoli è bellissima.. Con grande gioia abbiamo trovato una città pulita, accogliente, calorosa. Non ci siamo fatti mancare naturalmente la pizza con la mozzarella di bufala, né il cornetto la mattina con crema pasticcera e uvetta (“la polacca”).
Lunedì verso le 17 abbiamo preso la tangenziale in direzione Caserta; quaranta minuti di superstrada e poi quel bivio, che metteva i brividi: “Casal di Principe”. Per chiunque abbia letto Gomorra, o sia minimamente interessato alle vicende di criminalità organizzata, quel nome evoca una serie di immagini, di uomini, di storie. Sui giornali si legge spesso del “clan dei casalesi”. I Casalesi sono gli abitanti di Casal di Principe. Casal di Principe sta alla camorra come Corleone sta a Cosa Nostra. In questi piccoli paesini sono nati, cresciuti, hanno trovato la morte o sono stati arrestati moltissimi dei principali boss delle rispettive organizzazioni.
Tuttavia, mentre i Corleonesi Riina e Provenzano presto si spostarono a Palermo, e lì realizzarono i propri affari inondando le strade di sangue, i casalesi hanno mantenuto e mantengono un rapporto molto più stretto col proprio territorio d’origine. A Casale le strade parlano: Piazza Angelo Riccardo (un ragazzo ucciso da una pallottola vagante, per errore), Piazza don Peppino Diana (l’eroico parroco di Casale trucidato nel 1994 in sacrestia). In un angolo è morto un giovane; in un altro un imprenditore che non pagava il pizzo. I cognomi che si leggono sulle targhette delle abitazioni sono rumorosi: Famiglia Schiavone, Famiglia Iovine

Questo è lo scenario che ci si presentò al nostro arrivo. Eravamo nel cuore di Gomorra. Durante il nostro soggiorno di una settimana, per esempio, è stato arrestato un trentenne di San Cipriano d’Aversa, che abitava a pochi metri dal bene confiscato, per estorsioni varie; il giorno dopo è stato arrestato Mandara, il colosso delle mozzarelle di bufala, e il suo imponente stabilimento sequestrato. La camorra lì si percepisce; o meglio, non si vede, non si palesa, ma si cela dietro le maschere degli abitanti, pericolose miscele di diffidenza ed omertà. Mi colpì molto una frase che mi disse Gigino, il barista del Bar centrale, un’istituzione a San Cipriano, quando gli chiesi da chi era frequentato il suo bar “Che dovrei fare? Chiedere sei un camorrista o non lo sei? Se lo sei nun te facc’ u’ cafè!”. Già, non si può pretendere il certificato del casellario giudiziale quando si ordina un caffè. Eppure Gigino era una persona per bene, interessata alla attività di recupero del territorio. 70 anni, 40 anni attività nello stesso bar, 40 anni di vita di San Cipriano e Casale sono passati davanti al suo bancone, tra il rumore degli spari e troppo sangue sul ciglio della strada.
E qui entriamo nel cuore dell’analisi “sociologica”: come una nostra amica di Libera Caserta, nata e residente a San Cipriano, ci ha spiegato, la popolazione locale rispecchia perfettamente il tricolore italiano. Ci sono i verdi, coloro che lottano per un futuro migliore, senza la camorra. Ci sono i rossi, i camorristi. E ci sono i bianchi, coloro che pur non facendo parte della camorra non si azzardano a denunciarne le nefandezze, si piegano al giogo del pizzo, chiudono gli occhi o le persiane di fronte ai crimini. Il primo compito dei verdi è, per loro stessa ammissione, “contagiare i bianchi”. Una sfida verdi contro tutti è difficile da vincere. Ma una sfida verdi contro rossi, senza più bianchi, è uno scenario ben diverso.

I verdi

I verdi, naturalmente, ci sono sempre stati. Ovunque si siano verificate prevaricazioni e violenze, sono sorte anime “pure” contro tali sopraffazioni. Verde era, primus inter pares, don Giuseppe Diana, giovane parroco di Casale dal 1989 al 1994. Egli si mise in prima linea, sin da subito, nella lotta alla camorra, combattendo per il riscatto del suo territorio. Pubblicò un documento, “Per amore del mio popolo non tacerò”, sottoscritto anche da altri parroci della zona, con cui denunciava senza mezzi termini i crimini della camorra e invitava i cristiani a una reazione. Fu ucciso alle 7 e 25 di mattina, all’uscita della sacrestia della chiesa di San Nicola, con cinque colpi di pistola, il giorno del suo onomastico. Era il 19 marzo del 1994. Alla scena assistette un giovane fotografo, Augusto di Meo, che abbiamo avuto l’onore di conoscere durante il campo. Egli negli anni successivi raccontò dettagliatamente l’episodio agli inquirenti e riuscì a riconoscere l’esecutore materiale dell’agguato, consentendone la condanna all’ergastolo. Peraltro, Augusto di Meo rappresenta l’unico testimone oculare della storia giudiziaria recente della camorra. E’ l’unico, meglio, che ha avuto il coraggio di recarsi dai magistrati e testimoniare ciò che aveva visto, senza timori. Nessun altro uomo o donna ha fatto altrettanto, eppure gli omicidi sono stati numerosi, spesso avvenuti nelle piazze principali, in pieno giorno, con le strade affollate. Ma la camorra è anche e soprattutto questo: paura, omertà, connivenza.
Verde era anche Domenico Noviello, un imprenditore trucidato perché rifiutatosi di pagare il pizzo. Il problema dei verdi per troppi anni era l’isolamento: alcuni uomini di Dio, non saprei come altro chiamarli, alzavano la voce, decidevano di non soccombere, e spesso trovavano la morte in quanto bersagli inermi.
Da qualche anno perciò, avendo compreso questo fatto, i verdi hanno elaborato nuove strategie: in particolare, si è assistito nell’ultimo decennio al proliferare delle cooperative sociali. La legge 109 del 1996, promulgata in seguito a una straordinaria raccolta di firma, impone l’uso sociale dei beni confiscati alle mafie. Libera nacque nel 1995 proprio per imporre tale requisito nella riassegnazione dei beni. Ebbene, a San Cipriano e Casale, grazie a questa legge, è sorta una serie di realtà che gestiscono abitazioni, terreni, locali un tempo di proprietà dei camorristi. Noi ne abbiamo conosciute diverse: la fattoria sociale “Fuori di zucca”, le cooperative Agropoli ed Eureka, la Nuova Cucina Organizzata (ristorante e pizzeria) che ha voluto riappropriarsi di un acronimo utilizzato da Raffaele Cutolo, per indicare la propria organizzazione camorristica.
Spesso si tratta di cooperative di “tipo B”, che favoriscono cioè l’inserimento lavorativo di soggetti svantaggiati. Nel bene in cui noi dormivamo per esempio è ospitato un gruppo di convivenza, nel quale trovano dimora alcuni ragazzi che un tempo venivano definiti “matti”, rinchiusi nei manicomi o, in seguito alla loro abolizione, legati ai letti delle cliniche private perché pericolosi, con ingenti costi per le proprie famiglie. Queste cooperative si sono “inventate” una soluzione vincente: il gruppo di convivenza, luogo di affetti e di calore umano, abbinato al ristorante-pizzeria, nel quale questi stessi “matti” servono ai tavoli, cucinano, lavorano , producendo pure profitto! Conversando con gli operatori e gli educatori, si percepisce l’orgoglio e la soddisfazione per ciò che stanno riuscendo a fare: il riutilizzo dei beni che erano dei camorristi, l’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, la cura affettiva di soggetti disadattati, la genesi di un’economia pulita e sostenibile. La forza di queste realtà sta nel network che sono state in grado di creare: tutte le cooperative sono in costante contatto, si scambiano strumenti da lavoro, organizzano eventi insieme; uniscono l’attività economica (ribadisco, che genera profitto!) all’impegno civile (continui festival, cineforum, convegni in funzione anti-camorristica).
Insomma, se a bordo della mia C1 pensavo di dover fare i conti con Gomorra, una volta conosciuti San Cipriano e Casale ho dovuto, piacevolmente, rivedere i miei pre-giudizi. La camorra c’è, è innegabile, si sente e si legge continuamente sui quotidiani locali, con gli arresti all’ordine del giorno. Ma c’è anche l’anti-camorra: c’è, eccome se c’è, una fittissima rete di associazioni e cooperative che lottano per il riscatto del proprio territorio, che smuovono le coscienze dei cittadini e nel contempo propongono un nuovo modello di economia, che rifiuta la camorra così come il capitalismo esasperato degli ultimi anni. E’ l’impresa sociale, che consente la distribuzione degli utili su scala più ampia, offre lavoro anche a soggetti che sarebbero scartati dal “mercato”, genera un profitto pulito e condiviso.
Questa è stata la scoperta più bella. Ciò di cui la tv non parla, mai, perché si sa, fa più rumore una foglia che cade di una foresta che cresce. Ma queste ragazze e ragazzi ci hanno creduto sin dall’inizio, quando erano pochi e pazzi, “fuori di zucca” appunto, come li chiamavano, e come si è voluta chiamare icasticamente la fattoria sociale. I verdi, così organizzati, sono una forza. Sono sempre di più, perché rosicchiano giorno dopo giorno, evento dopo evento, lo spazio dei bianchi, che si lasciano contagiare da questo virus di vita e di libertà.

Camorra vs anticamorra: lo Stato è spettatore (nel migliore dei casi…)

Abbiamo visto come la qualità della lotta alla camorra sia notevolmente migliorata grazie alla nascita di queste cooperative. Ciò che si avverte immediatamente, però, è la mancanza di un attore sul palcoscenico difficile di queste terre: lo Stato. Un dato rispecchia bene questa situazione: i tre comuni di San Cipriano, Casale e Casapesenna sono stati sciolti per infiltrazioni mafiose e sono retti da commissari prefettizi. I verdi hanno dovuto fare i conti con questo vuoto, e sono stati bravi ad auto-organizzarsi, senza contare sull’aiuto delle “istituzioni”.
Ho potuto constatare questa triste realtà durante un tour infernale che ho fatto, in macchina, in compagnia di due esponenti di Legambiente locale, un pomeriggio. Innanzitutto mi hanno portato a vedere le discariche illegali che affollano le strade all’uscita dei centri urbani: interminabili cumuli di rifiuti di ogni tipo, dalla plastica al vetro, dalla gomma all’eternit, che vengono di tanto in tanto bruciati, quando raggiungono dimensioni eccessive. Le ceneri ed il percolato alimentano i campi coltivati ad essi adiacenti. Dove è lo Stato dinanzi a tale scempio? Ma come si dice da queste parti, “questo è un Paese dove se una la dici, l’altra la devi levare un pochino..”. Gli stessi referenti di Legambiente lo sanno. Quando, dopo svariate sollecitazioni, lo Stato decide di attivarsi, si limita a porre il nastro bianco e rosso, per “mettere in sicurezza” la zona (sic!). Quando arrivano i fondi europei, lo scenario è più complesso: grazie al sostegno economico, si riescono a smistare queste montagne di rifiuti e si creano tante “balle” di rifiuti perfettamente differenziati. Tuttavia, esse rimangono poi lì, ai bordi delle strade, abbandonate, in attesa che il primo temporale le decomponga e si ricominci daccapo. Come è possibile? Perché la società incaricata del lavoro non l’ha portato a termine, ma ha distratto fondi? Abbiamo visto poi i famigerati Regi Lagni, fitta rete di canali la cui ricostruzione è stata appannaggio delle aziende camorristiche, con l’esito che qualunque passante può apprezzare: essi sono oggi delle vere e proprie fogne a cielo aperto, in collegamento coi pozzi utilizzati per irrigare i vicini campi, che convogliano a mare diventando una delle principali fonti di inquinamento del litorale domizio.
Ma lo “Stato che non c’è” è anche lo Stato che, per risolvere il problema dei rifiuti a Napoli, si limita a spostarli altrove e ivi abbandonarli sine die. Ricordiamo tutti l’allora premier Berlusconi e l’ex capo della Protezione civile Bertolaso impegnati su questo fronte: si vantarono pubblicamente per giorni di aver “risolto il problema”. Quello che fecero l’ho potuto vedere, nonostante quasi nessuno lo avesse denunciato. Essi recintarono una vasta zona affiggendo il cartello “zona di interesse strategico – divieto d’accesso”, simulando una sorte di base militare in mezzo ai campi coltivati. Qui si possono scorgere ancora oggi vere e proprie colline di rifiuti, completamente abbandonate al loro destino. Così si risolse il problema: spostando i rifiuti da un luogo all’altro. E che dire delle discariche legali (vi sono anche quelle) dove però si consumano le peggiori truffe? Siti in cui dovrebbero trovarsi solo rifiuti “secchi”, che pullulano tuttavia di gabbiani (tipicamente amanti dell’”umido”!).
Era la Campania felix, la terra più fertile della penisola. Come è stato possibile assistere a questo indegno stupro consumatosi per decenni? Dove era lo Stato mentre la camorra si impadroniva del ciclo dei rifiuti, inquinando l’arativo, o delle imprese edili? Dov’era quando si decise di trasformare Napoli nella discarica di Italia, facendo pervenire gli scarichi delle industrie del Nord? Dov’era quando la camorra estorceva, vinceva le elezioni, controllava passo dopo passo tutte le attività economiche della zona? Una risposta la possiamo dare: Bettino Craxi per esempio, mentre la camorra faceva tutto ciò, era a braccetto con Ernesto Bardellino, sindaco di San Cipriano e fratello di Antonio Bardellino, numero 1 del “sistema” negli anni ’80. Correva l’anno 1982, e Craxi era premier.
Anche quando la connivenza, anzi l’alleanza, non è stata così esplicita, le istituzioni non sono spesso state all’altezza. Sono pochi i sindaci di queste terre che hanno scelto di contrastare vigorosamente la camorra; tra questi merita di essere ricordato Renato Natale, sindaco di Casale negli anni di don Peppe Diana.

La magistratura: baluardo di legalità

Mentre la politica ha spesso latitato e non si è dimostrata all’altezza, la magistratura ha saputo portare a termine battaglie fondamentali, grazie al prezioso contributo della polizia giudiziaria. Una menzione particolare infatti meritano quei servitori dello Stato che per anni, in trincea, tra mille difficoltà giudiziarie e personali, hanno celebrato i difficili processi contro la camorra. Abbiamo avuto l’onore di conoscere il Dottor Raffello Magi, giudice estensore della sentenza Spartacus, il colpo più duro mai inferto al “sistema”. In un libro bellissimo, che ho letto al ritorno dal mio viaggio, il giudice racconta con estrema chiarezza lo svolgimento del maxi-processo: le 700 udienze, le tattiche dilatorie dei difensori dei camorristi, l’esigenza di ricostruire le ragioni di ogni singolo omicidio, le alleanze e le rivalità tra clan, i riscontri alle parole dei pentiti, la difficoltà estrema di trovare testimoni. Il processo si è basato essenzialmente su prove di tipo tecnico (intercettazioni telefoniche, pedinamenti tramite g.p.s. ecc.) e sulle rivelazioni dei collaboratori di giustizia, Carmine Schiavone in primis, debitamente comprovate. La sentenza di primo grado, estesa dal dottor Magi, ha superato sostanzialmente intatta il grado di appello e il giudizio di legittimità della Cassazione, a riprova dello straordinario lavoro svolto: 21 ergastoli e un centinaio di condanne a pene inferiori, pochissime assoluzioni.
I più importanti boss della camorra, penso a Francesco Schiavone, Antonio Iovine e Michele Zagaria, sono stati catturati e condannati al “fine pena mai”. Eloquenti le parole di quest’ultimo, il 7 dicembre 2011, al suo arresto: “Avete vinto voi, ha vinto lo Stato”.

La speranza: il bianco che tende al verde

Il riscatto di queste terre si fonda sull’azione sinergica della magistratura, sul fronte della repressione, e dell’associazionismo cooperativo, nel campo dell’educazione. Tina Cioffo, giornalista del Mattino vicina al mondo delle cooperative, ci disse orgogliosamente: “E’ finito il tempo della resistenza. E’ iniziato quello della costruzione”. E’ bello sentire parole di ottimismo dalle persone che abitano questi territori.
E’ il tempo della costruzione dunque. La piazzetta don Diana, che all’inizio veniva curata esclusivamente dai ragazzi delle cooperative, è oggi accudita dagli abitanti delle case circostanti; una mattina, mentre potavamo gli alberi, una famiglia ci è venuta a portare acqua e caffè. Sono piccoli gesti, ma segnali fortissimi. Un’altra mattina abbiamo effettuato un volantinaggio per un evento per bambini che avremmo organizzato nel pomeriggio. Moltissime mamme ci ringraziarono calorosamente e accettarono l’invito. Mi colpirono le parole di una nonna, che stava cucinando con i suoi nipotini: “Bravi ragazzi che fate del bene.. Dio vi benedica”.
L’ultimo giorno ho giocato a ping pong con i ragazzi di San Cipriano e tra una pallina e l’altra tentavo di far comprendere loro l’importanza di lottare per il proprio territorio, di portare gli amici a giocare nel bene confiscato, di costruirsi il proprio futuro attraverso lo studio e la fatica. L’ho chiesto anche a Fabio, che ancora faceva fatica ad accettare la confisca ai danni di suo zio. L’ho chiesto però anche a suo fratello Beppe, undicenne, ma con le idee già molto chiare. Mi si avvicina e mi dice: “Luca, è meggh’ sta in miezz’ a via che esser camorrista”.
Hai ragione Beppe. E’ meglio morire di fame in mezzo a una strada, che fare il camorrista.