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Il riutilizzo sociale degli immobili confiscati alla criminalità organizzata In italia.

Un’indagine architettonica spaziale, funzionale e gestionale

Panoramica per il progettista

Oggi l’uso degli spazi in disuso delle città occidentali è un argomento comune: riqualificazione, riuso, recupero, riutilizzo, ripristino, restyling, rinnovo ecc… sono termini che si possono trovare anche nei quotidiani più generalisti riferiti a episodi di architettura e design. In Italia dal 1982 è presente un caso specifico di riutilizzo del patrimonio edilizio: il recupero dei beni confiscati alla criminalità organizzata, soprattutto quella di stampo mafioso. 14 anni dopo, la legge 109/96, discussa in Parlamento in seguito alla raccolta di un milione di firme della società civile, ha provveduto a precisare quale dovesse essere la destinazione dei beni: riutilizzati per finalità istituzionali o a fini sociali. L’Italia per ragioni storiche e sociali è all’avanguardia mondiale in ambito giuridico per il sequestro e la confisca dei beni alla criminalità organizzata, e è un caso studio in ambito sociale per quanto riguarda il gran numero di esperienze che si sono prodotte.

Questo caso di riutilizzo può apparentemente sembrare simile a quello tradizionale: spazi svuotati da riempire con nuove attività. Ma presenta alcune differenze sostanziali che lo rendono peculiare:

a) è indicata la finalità del nuovo utilizzo: usi istituzionali o sociali. Non è importante solo il mero fatto che si riutilizzi quindi, ma anche il come. Ciò rimane intimamente legato ai motivi per cui esso viene confiscato e quindi perché viene successivamente riutilizzato;

b) lo spazio non è stato abbandonato, ma viene opportunamente svuotato, per cause e con logiche completamente slegate dalla lettura del contesto urbanistico ed edilizio. Ne consegue che la qualità e le caratteristiche del patrimonio da riutilizzare messo a disposizione sono determinati dal caso;

c) la vicenda di un immobile abbandonato non confiscato di solito prevede un vecchio proprietario che non c’è più, che si è ritirato spontaneamente (favorendo a volte lui stesso il riutilizzo delle aree), quando questo non sia direttamente lo Stato. La comunità locale circostante a volte si mobilita e chiede a gran voce l’intervento, oppure rimane indifferente e si cerca anzi di coinvolgerla il più possibile nel riutilizzo; e varie dinamiche sociali locali si declinano e trovano terreno di espressione su e tramite il patrimonio in disuso. Nel caso dei beni confiscati, il processo di svuotamento di cui al punto b) presenta invece una situazione ben diversa: ci sono da una parte i precedenti proprietari, spesso potenti famiglie locali che traevano dalla proprietà ricchezza e prestigio; dall’altra lo Stato, che tramite le Forze dell’Ordine attua la pena di confisca decisa nelle aule di giustizia. Tutto intorno la comunità (una via, un quartiere, un paese, una città), costretta forzatamente a fare i conti con una realtà che ignoravano (e che prosperava sotto i loro occhi), oppure che conoscevano fin troppo bene ma che spesso, consciamente o inconsciamente, per omertà o per costrizione, veniva ignorata. Il bene, una volta confiscato, rimette in discussione le dinamiche sociali su piccola scala;

d) il rapporto del nuovo utilizzo con il precedente nel caso del bene abbandonato non confiscato può seguire diversi approcci: può determinare chiaramente il riutilizzo (il Museo della Ruhr: una centrale a carbone che diventa un Museo sulle centrali a carbone), può essere molto caratterizzante per contrasto (un bar in un edificio di culto sconsacrato), oppure semplicemente viene ignorato. Ciò che conta solitamente è la qualità architettonica intrinseca di quell’episodio edilizio (un antico castello bizantino o un audace intervento brutalista) oppure il significato storico e affettivo che quell’episodio architettonico ha per la città (una grande industria siderurgica, l’ex Palazzo della Regione ecc…). L’approccio progettuale nei confronti della vita precedente di un bene confiscato alle mafie è invece decisamente più dialettico: il non volerlo ignorare significa farsi portatori di una battaglia spesso attuale in quel contesto; non si tratta di rileggere il passato, si tratta di riscrivere il presente. Al tempo stesso, il volerlo ignorare potrebbe essere interpretato come una negazione di quella battaglia al crimine organizzato della quale il bene confiscato è il frutto maturo, un’inaccettabile neutralità intellettuale che può essere sostituita solo da una destinazione d’uso decisamente impattante per la comunità. Questo perlomeno è lo spirito con il quale nacque la legge 109: i beni confiscati sono i simboli del riscatto della comunità contro la criminalità e in quanto tali devono restituire qualcosa a quella comunità ferita;

e) la casualità della comparsa nella sintassi urbana di uno spazio confiscato (di cui al punto b)) impone il problema affatto scontato di trovare stakeholder e investitori che se ne facciano carico e la sensibilità dei decisori pubblici sul tema. Il tutto con l’urgenza di dimostrare che lo Stato vince dove le mafie hanno perso (il rischio, in caso di inazione, è quello infatti di dimostrare esattamente il contrario). Questo ha dato vita a inedite modalità di gestione e a precisi apparati normativi, come i Regolamenti comunali o regionali per la gestione del patrimonio confiscato, con caratteristiche diverse dagli analoghi regolamenti che possono essere prodotti per i semplici spazi in disuso. Sono stati fatti diversi studi sui software progettuali per affrontare il riutilizzo del patrimonio edilizio. Ma risulta che molto meno spesso si sia provato a individuare un pattern degli interventi realizzati o in fase di realizzazione, non nei princìpi generali o nelle intenzioni, ma effettivamente su come lo spazio confiscato riutilizzato sia vissuto nella sua nuova vita. Nell’individuare queste caratteristiche questo lavoro si propone anche di dare una visione d’insieme dell’esperienza dei beni confiscati in Italia considerandola come un episodio unico dove siano ravvisabili chiavi di lettura comuni dalle Alpialle Isole del territorio italiano (e potenzialmente anche ben oltre, considerando l’interesse sempre crescente delle istituzioni europee per il tema e le novità giuridiche apportate in Sudamerica sul tema confische, proprio seguendo il modello italiano). Teniamo inoltre a precisare che il fenomeno della confisca di beni alle mafie è un fenomeno nazionale a tutto tondo, e non è più esclusivo dei territori “tradizionali” della criminalità organizzata: anzi, come detto, è già internazionale. Una bussola del presente lavoro sarà quella di non volersi abbandonare a una facile retorica, che spesso risulta invitante quando si affronta il tema della criminalità organizzata. Siamo convinti che un’opera di contrasto alla criminalità organizzata che sia davvero complementare a quella esercitata di default dalle forze dell’ordine, sarà costituita da tutti quegli interventi di recupero di beni sottratti alle mafie che sappiano essere effettivamente catalizzatori di energie positive e generatori di cultura nei propri territori. Perché ciò avvenga, è necessario capire quali sono le strategie e gli elementi che funzionano in assoluto o in relazione a un certo contesto e che sappiano declinare i princìpi di legalità e rigenerazione sociale e culturale nei propri territori; solo in secondo luogo ci sarà lo spazio per targhe e intitolazioni “importanti”. Per questo abbiamo voluto fare un focus su chi effettivamente tiene poi aperti i beni confiscati e ha deciso di fare la scommessa di gestirne uno. Una progettazione che non tenga conto effettivamente dei futuri fruitori non è una buona progettazione.

Allegati:

  1. Tesi di laurea
  2. Presentazione