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Sono le 12.06 del 7 giugno 2019 quando, al IV piano del Palazzo di Giustizia di Genova, nell’aula Francesco Coco, il Presidente del I Collegio della II Sezione penale, dott. Merlo, dà lettura del dispositivo della sentenza di primo grado del processo “I Conti di Lavagna”, nato dall’indagine condotta dalla DDA di Genova a partire dal 2016, e nell’ambito del quale sono state disposte numerose condanne non solo ai presunti ‘ndranghetisti di origine calabrese, ma anche ad alcuni politici liguri, ritenuti colpevoli di aver accettato pacchetti di voti in cambio di favori economici alle cosche.

In data 2 Ottobre 2019 sono state depositate le 246 pagine di motivazione della sentenza, che ripercorre tutte le vicende storiche e processuali tramite l’analisi dei molteplici capi di imputazione.

Capo 1 – Reato di associazione a delinquere di stampo mafioso

Il capo relativo all’associazione mafiosa riguarda Nucera Paolo, Nucera Antonio, Nucera Francesco, Rodà Francesco Antonio (cugino di Rodà Antonio, assolto con rito abbreviato dalla medesima imputazione a causa del suo “irrilevante apporto alla dinamica associativa”, della quale veniva dunque riconosciuta l’esistenza) e Paltrinieri Paolo (quest’ultimo, assolto).

Per gli imputati, l’accusa consiste nel far parte, a vario titolo, all’associazione mafiosa denominata ‘ndrangheta e in particolare a quella specifica ramificazione territoriale, denominata “locale”, stabilita a Lavagna. Infatti, come viene ricordato in sentenza, la presenza della ‘ndrangheta è da tempo accertata non solo in Calabria, ove opera come società segreta retta da formule, riti e gradi di gerarchia (“doti”) ben precisi, ma anche in contesti geografici diversi da quelli di origine, dal Nord Italia fino a paesi stranieri come il Canada, l’Australia, la Germania; a tal proposito, la sentenza ripercorre le numerose pronunce che nel corso del tempo hanno accertato in modo univoco il “deplorevole insediamento… della casa madre ‘ndrangheta anche in territori tradizionalmente immuni alla fenomenologia mafiosa”. Per quanto concerne la Liguria, si fa riferimento a sentenze e procedimenti di cui si è già trattato ampiamente, e in particolare l’operazione “Crimine/Infinito”, l’operazione “La Svolta” sull’infiltrazione della ‘ndrangheta a Ventimiglia e Bordighera, e l’operazione Maglio 3 sull’infiltrazione nel capoluogo Genovese.

In primo luogo, i giudici si soffermano sul contrasto interpretativo che ha interessato diversi procedimenti per associazione mafiosa, compreso “Maglio 3”, circa la necessità che il “metodo mafioso” sia estrinsecato: se secondo un primo orientamento è “sempre necessario che l’associazione abbia in concreto conseguito nell’ambiente nel quale essa opera un’effettiva capacità di intimidazione, con la conseguenza che tale capacità deve avere una esteriorizzazione in forme di condotta positive”, diversamente, un’altra parte della giurisprudenza ritiene che “per qualificare come mafiosa un’organizzazione criminale è già sufficiente la capacità potenziale, anche se non attuale, di sprigionare, per il solo fatto di esistere, una carica intimidatrice idonea a piegare ai propri fini la volontà di quanti vengano in contatto con gli affiliati della medesima organizzazione”, lettura recepita dalla Corte di Cassazione proprio nel processo “Maglio 3”, che ritiene ancora più pericoloso il fenomeno della c.d. “mafia silente”.

Ciononostante, la sentenza precisa che non vi sia «alcuna interferenza di tale contrasto ermeneutico con il caso di specie in quanto la locale lavagnese non è riconducibile alla categoria delle “mafie silenti”, essendosi manifestata con numerosi e gravi “reati fine” espressamente contestati e in gran parte accertati nell’istruttoria dibattimentale».

In secondo luogo, i giudici si soffermano sulla posizione di Nucera Paolo imputato, relativamente alla locale di Lavagna, sia nell’odierno procedimento, sia nel precedente “Maglio 3”, in cui è stato assolto mancando la prova che egli avesse “commesso il fatto”. Tuttavia, tale pronuncia non impedisce un nuovo giudizio essendo i fatti dei due processi fra loro diversi in quanto collocati in due contesti temporali differenti, rispettivamente prima e dopo il 2012.

Il Tribunale si sofferma sulla testimonianza del Dott. Carmeli (Dirigente della SCO di Genova), dalla quale ritiene emergano con chiarezza quali fossero gli elementi probatori preesistenti all’indagine e che devono essere letti congiuntamente ai nuovi elementi raccolti.

Viene quindi ricordato come già nell’ambito del processo “Crimine” (nell’ambito del quale furono condannati quali figure di spicco della locale genovese Domenico Gangemi e Domenico Belcastro) fosse stato accertato il radicamento della ‘ndrangheta in Liguria (a Genova, Lavagna, Ventimiglia); di come, nell’occasione dei funerali di Antonio Rampino (ritenuto capo della locale di Genova prima di Gangemi), fossero presenti vari soggetti, sia “liguri” che “piemontesi”, poi condannati, e di come fosse presente anche Rodà Francesco Antonio; di come nel Gennaio 2010 fosse sorto un contrasto fra Gangemi Domenico e Nucera Paolo a causa della partecipazione di quest’ultimo ad un funerale senza prima aver avvisato Gangemi; di come Nucera Paolo, Rodà Francesco Antonio e Rodà Antonio avessero partecipato, nel Marzo 2010, ad una riunione presso l’Hotel Ambra in cui erano presenti, oltre a Gangemi – desideroso di “chiarire con Paolo i dissidi fra le locali di Genova e Lavagna” – alcuni dei futuri condannati del processo Maglio 3; di come, infine, fossero stati registrati numerosi contatti sia con esponenti della ‘ndrangheta ponentina (imputati e poi condannati nel procedimento “La Svolta”), sia con esponenti della ‘ndrangheta del basso Piemonte (imputati e poi condannati nel processo “Albachiara”).

La sentenza si sofferma quindi sulle risultanze emerse dall’odierna indagine; iniziata nel 2013, a seguito di un accertamento patrimoniale, poi sfociato nella misura di prevenzione della confisca, nei confronti dei cugini Rodà Francesco Antonio e Rodà Antonio che conducevano un tenore di vita non compatibile con le risultanze reddituali.  In tale periodo, secondo gli investigatori, Rodà Francesco Antonio aveva preso il posto del cugino (e cognato) Nucera Paolo nella direzione della locale di Lavagna, essendo quest’ultimo imputato nel processo Maglio 3. Secondo l’impianto accusatorio, alla locale apparterrebbero anche i fratelli di Nucera Paolo, Antonio e Francesco, da sempre impegnati nello smaltimento dei rifiuti tramite la “Nucera Trasporti snc”, e Paltrinieri Paolo (che sarà assolto per non aver commesso il fatto).

La corretta rappresentazione degli intrecci familiari risulta fondamentale poiché, “uno degli elementi che caratterizza l’articolazione territoriale della ‘ndrangheta è la forza di coesione del gruppo che assicura l’omertà e la solidarietà nel momento del bisogno, l’assistenza agli affiliati detenuti nonché i sussidi economici ai loro famigliari”. Altrettanto rilevanti gli stretti legami, constatati tramite intercettazione, fra il gruppo di Lavagna a la ‘ndrina Rodà-Casile di Condofuri (RC), la cui esistenza è stata accertata dalla Cassazione nel 2015 (operazione Konta Korion), nell’ambito della quale sono stati condannati soggetti (fra i quali Casili Antonio, Casili Pietro e Macrì Giorgio) i cui familiari hanno intrattenuto stretti rapporti con Nucera Paolo e Rodà Francesco Antonio. Infatti, i membri della famiglia Casili sono detenuti nel Nord Italia (fra Genova e Voghera) e da innumerevoli intercettazioni è emerso il sostegno logistico che veniva assicurato ai familiari dei detenuti in occasione delle visite presso i luoghi di detenzione (visite alle quali gli ospiti erano accompagnati dagli stessi imputati, in particolare da Rodà Francesco Antonio), che diveniva anche momento per confrontarsi sulle vicende (soprattutto giudiziarie) riguardanti la ‘ndrina ed i loro compaesani arrestati. Ad esempio, il 28 Marzo 2015, durante il tragitto per la stazione di Genova, Rodà Francesco Antonio indicava all’ospite dove fosse sistemato il suo “compare Micu” (Domenico Gangemi).

Al sostegno logistico va aggiunto il sostegno economico alle famiglie che, secondo il Tribunale, deve ritenersi “provato dal fatto che in occasione delle feste natalizie Rodà Francesco Antonio si recasse a Condofuri con cospicue somme di denaro da distribuire proprio ai parenti dei detenuti”: lo stesso Rodà Francesco Antonio, come emerge dalle intercettazioni, fa riferimento alle somme da distribuire ai diversi familiari, scrupolosamente individuati, si confronta sull’ammontare dei sussidi e vaglia la possibilità che le varie dazioni avvengano anche in occasione delle visite in carcere.

La sentenza analizza poi i due elementi costitutivi del reato di associazione mafiosa: la forza di intimidazione e le condizioni di assoggettamento ed omertà. Infatti, le infiltrazioni della famiglia Nucera negli apparati amministrativi, politici e sociali sarebbero dimostrate da fattori quali la conquista di un settore sensibile come quello dei rifiuti, il condizionamento della politica locale e la conduzione di azioni delittuose tipiche della criminalità organizzata (diffusione di armi, usura e cessione di sostanze stupefacenti).

Secondo il Collegio, la condizione di assoggettamento si evince proprio in relazione a questi tali reati (“satellite” o “spia”), fra cui rileva soprattutto la disponibilità di un “vero e proprio arsenale di armi pronte all’uso”, com’è “tipico dell’associazione malavitosa”.

Per quanto concerne l’infiltrazione nell’apparato amministrativo, con riferimento alla gestione dei rifiuti, il Collegio ricorda come già nel 1995 la Commissione Antimafia avesse allertato l’amministrazione lavagnese, monito cui fece seguito, nello stesso anno, la nomina di un collegio prefettizio che verificasse l’appalto in questione; tuttavia, nel 2001, l’allora sindaco di Lavagna Mondello Gabriella concluse una Convenzione che – sottolineano i giudici – ha permesso ai Nucera di continuare ad occuparsi dello smaltimento fino al 2015.

In merito al condizionamento della politica locale, il Tribunale ritiene assuma particolare rilevanza il fatto che, in occasione di consultazioni elettorali come quella del maggio 2014, la Mondello ed il futuro Sindaco Sanguineti, entrambi condannati, si siano rivolti a Nucera Paolo, consapevoli del fatto che fosse in grado di garantire fino a 500 voti. Altrettanto significativo che, immediatamente dopo l’elezione a Sindaco, Sanguineti si fosse recato presso l’Hotel di Nucera Paolo per giustificare il mancato conferimento a Talerico Massimo (assolto per non aver commesso il fatto) dell’Assessorato all’ambiente, in luogo del quale gli era stata conferita la delega al demanio e al patrimonio.

La sentenza dà rilievo, quali azioni delittuose tipiche, all’incontrastata attività di usura portata avanti da Rodà Francesco Antonio, che spesso si traduceva nell’acquisizione di attività commerciali, nonchè ai rapporti intrattenuti da Nucera Paolo e Roda Francesco Antonio sia con la delinquenza locale sia con soggetti di altrettanto rilievo criminale che comunicavano il loro inserimento lavorativo nel medesimo territorio dei Nucera, attenzione – quella della comunicazione – sintomo di un particolare rispetto verso Nucera, ovvero che frequentavano assiduamente l’Hotel Ambra. Ancora, la richiesta di Rodà e Nucera ad un soggetto, da loro denominato “bandito”, quale segno di “rispetto per gli aiuti economici avuti durante il carcere”, di individuare i responsabili dei furti commessi in danno di alcune slot-machine, cui “avrebbe tagliato la testa”; infine, circa un appartenente alla banda di Mario “Marietto” Rossi, Nucera Antonio commenta di come non si fermasse al Bar della famiglia Nucera per “evitare di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine”, atteggiamento che viene apprezzato quale segno di rispetto.

Significativa del controllo operato della famiglia Nucera sul territorio lavagnese è la conversazione dalla quale emerge come il Nucera avesse obbligato un terzo ad assumere il proprio nipote, Arco Massimiliano (marito di Antonella Nucera, figlia di Nucera Paolo), alle sue dipendenze.

Per quanto concerne la forza di intimidazione del gruppo di Lavagna è lo stesso Nucera Antonio a ricordare in una conversazione il rispetto di cui gode la famiglia, riferimenti – quelli alla “notoria mafiosità” del gruppo e alla sudditanza degli amministratori locali – che emergono soprattutto in occasione delle consultazioni elettorali. Significative diverse intercettazioni, tra cui una telefonata in cui Nucera Paolo racconta di aver “redarguito la Mondello poiché durante l’operazione Maglio 3 non aveva smentito il suo collegamento con la ‘ndrangheta di Lavagna” ed una conversazione in cui Sanguineti Giuseppe, nel tentativo di risolvere la problematica gestione dello smaltimento dei rifiuti, precisava “di esserci già passato”, perché “Lavagna è in mano ai mafiosi tipo Nucera”, ed i presenti concordavano che la costituzione di una cooperativa che si occupasse di rifiuti avrebbe comportato ripercussioni da parte della famiglia Nucera, che gli avrebbe fatto “saltare gli automezzi”. Sempre con riferimento alla gestione dei rifiuti, Sanguineti ricorda come Nucera Antonio si fosse presentato in ufficio affermando che la ditta che doveva lavorare fosse esclusivamente la sua, lo stesso Nucera Antonio che avrebbe poi “redarguito” una dipendente comunale, rea di essersi intromessa nel monopolio sui rifiuti dei Nucera, ricordandole la sua origine e che “i calabresi ammazzano”, dicendole che per trent’anni era “andato tutto bene” e minacciandola di “finire in un sacco in fondo ad un buco”. Dipendente che, sentita in qualità di testimone durante il processo, ricorda di essere stata costretta a chiudersi in ufficio, nel silenzio dei colleghi, di fronte al tentativo di Nucera Antonio di “sfondare la porta con un calcio”.

Altrettanto sintomatica della potenzialità intimidatrice del gruppo di Lavagna (“modello Calabria”, come precisa Sanguineti) è l’apprensione dimostrata dalla Mondello successivamente al mancato conferimento, da parte del Sindaco, dell’assessorato all’Ambiente a Talerico Massimo, dal momento in cui Nucera era “stato di parola nell’aver convogliato i voti dei calabresi su Sanguineti”.

La forza di intimidazione viene ritenuta propria anche di Rodà Francesco: nonostante un testimone, debitore di Rodà, abbia precisato che quest’ultimo fosse una persona “tranquilla e serena”, sempre corretto nei suoi confronti, dalle conversazioni fra Rodà e il padre dello stesso, relativamente alla situazione patrimoniale del figlio, è emerso un quadro del tutto differente, dal momento che risultava che Rodà li avesse minacciato di: “metterlo sotto con la macchina”, “gonfiarlo” e “scoppiarlo di botte”, “picchiarlo anche davanti ai figli”.

A fronte di questo quadro, il Tribunale ritiene che “il consistente materiale probatorio abbia evidenziato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’esistenza della ‘ndrangheta a Lavagna”. Dal punto di vista dell’esistenza di una struttura, continuano i giudici, “dati di rilievo sono ricavabili proprio dalle varie indagini che si sono succedute nel tempo e che, alle luce degli specifici accadimenti accertati nel presente procedimento, assumo una particolare valenza”. L’esistenza di più locali in Liguria (compresa quella di Lavagna), secondo il collegio, è incontestabile, così come l’esistenza di un referente delle varie locali, individuato in Gangemi Domenico, diretto interlocutore del “capo Crimine” calabrese Oppedisano, nonché la rilevanza dei contatti fra Nucera Paolo e il Gangemi, “non relegabili a non meglio chiarite questioni personali” ma ascrivibili “al contesto ‘ndranghetista”. Nessun dubbio, pertanto, circa il fatto che la riunione svoltasi nel Marzo 2010 all’Hotel Ambra fosse una riunione di ‘ndrangheta. Altrettanto pacifici sono i sostegni economici e logistici ai familiari nonché agli stessi detenuti, membri della ‘ndrina Rodà-Casile di Condofuri, con cui gli imputati sono rimasti in contatto.

Pertanto, il Tribunale condanna Nucera Paolo, Nucera Antonio, Nucera Francesco e Rodà Francesco Antonio devono essere dichiarati colpevoli del reato di associazione mafiosa; viene invece assolto, per non aver commesso il fatto, Paltrinieri Paolo, “sicuramente consapevole dell’appartenenza di Rodà ad un contesto malavitoso ed a conoscenza del sostegno economico prestato ai familiari dei detenuti”; limitandosi, tuttavia, “il suo rapporto esclusivamente con Rodà”.

Infatti, tutti gli elementi raccolti confermano l’esistenza delle caratteristiche strutturali proprie delle articolazioni di ‘ndrangheta delocalizzate al di fuori della Calabria, che peraltro non opera come “mafia silente”, bensì agisce mediante l’intimidazione, come si desume dai “plurimi e specifici reati fine che ne costituiscono tipica estrinsecazione e che hanno determinato una diffusa condizione di assoggettamento sul territorio”, costituendo la “dimostrazione eclatante di una condizione attiva dell’organizzazione criminale”.