Il 30 ottobre scorso sono state depositate le motivazioni della sentenza con cui è stato condannato, per associazione mafiosa, il primo dei protagonisti dell’inchiesta “Conti di Lavagna”.
Si tratta di Antonio Rodà, la cui posizione processuale era stata stralciata a seguito della richiesta di rito abbreviato, formulata in udienza preliminare (a differenza degli altri 23 imputati, per il quali il dibattimento è appena cominciato).
L’indagine, iniziata nell’autunno del 2013, concerne, come noto, l’ipotizzato insediamento nel territorio del piccolo Comune di Lavagna di un locale della ‘ndrangheta calabrese, collegata alla ‘ndrina Rodà-Casile di Condofuri (RC).
Il presunto locale di Lavagna era già stato individuato nell’ambito del più ampio e tormentato processo “Maglio 3”, con particolare riferimento alla figura di Paolo Nucera. Egli, tuttavia, era stato assolto, per non aver commesso il fatto, salvo essere nuovamente arrestato, nell’ambito dell’operazione “I Conti di Lavagna”.
Nel corso di questa nuova indagine, durata due anni, il PM è riuscito a raccogliere un’ingente quantità di materiale probatorio, grazie alle intercettazioni ambientali e telefoniche, ai pedinamenti, agli atti di perquisizione e sequestro e alle dichiarazioni rese dalle persone offese.
Per poter dichiarare la responsabilità dell’imputato a titolo di partecipazione all’associazione mafiosa, il Giudice ha dovuto prioritariamente ricostruire l’esistenza di un’organizzazione con determinate caratteristiche nella città di Lavagna. Per questa ragione, il GUP, dott.ssa Nicoletta Bolelli, esordisce analizzando le numerose e oscillanti pronunce giurisprudenziali degli ultimi anni, relative alle consorterie mafiose radicate in territori diversi rispetto a quelli di origine.
In particolare, ripercorre il medesimo iter logico della Cassazione “Maglio 3” (che lo scorso 4 aprile ha annullato le assoluzioni di tutti gli imputati, ordinando un nuovo processo), richiamando più volte le argomentazioni della Suprema Corte e giungendo alla medesima conclusione: ciò che rileva nei processi di mafia al Nord è la corretta valutazione delle evidenze probatorie, secondo le consolidate regole di inferenza: “la valutazione completa e logica del copioso materiale investigativo a disposizione nel caso in esame consente di affermare la sussistenza di una ramificazione locale di ‘ndrangheta nel territorio di Lavagna”.
L’inchiesta, in questo senso, ha fornito una molteplicità di elementi univoci.
1) Le riunioni all’hotel Ambra, in cui già nel marzo 2010 si svolgeva un incontro “da ritenersi pacificamente” di ‘ndrangheta, cui era presente anche Antonio Rodà.
2) La disponibilità di armi, in particolare sette armi da sparo corte e una lunga, un silenziatore e 807 proiettili di vario calibro, avvolte in confezioni di caffè (che tramite il numero di lotto sono state ricondotte all’Ambra Bar di Paolo Nucera).
3) Gli stretti collegamenti tra il gruppo di Lavagna e la ‘ndrina “Rodà/Casile”, di San Carlo di Condofuri (RC). I fratelli Nucera ed i cugini Rodà si sono sempre dimostrati disponibili a soddisfare qualunque richiesta e necessità di tipo logistico: in occasione delle visite ai detenuti, andavano a prendere i familiari in stazione, offrendo loro ospitalità presso l’Hotel Ambra senza mai essere registrati o, addirittura, presso le loro abitazioni private; li accompagnavano ai colloqui in carcere; fornivano sostegno economico ai detenuti. In questo contesto, i lavagnesi raccoglievano informazioni circa le vicende della c.d. “casa madre” di Condofuri, dei contrasti tra le famiglie Casile e Bruzzese, degli arresti dei consociati e delle possibili conseguenze sulla ‘ndrina.
Francesco Antonio Rodà dichiarava, in un’intercettazione, di aver sempre consegnato alle famiglie una cifra minima di 2.000 € e, in occasione di un viaggio nel febbraio 2014, era partito con una somma di 15.000 €. “Va osservato – spiega il giudice – che l’ospitalità e le elargizioni di denaro alle famiglie dei detenuti di ‘ndrangheta di Condofuri, pacificamente accertate nel corso delle indagini, costituiscono rilevante indizio dello stretto legame che il gruppo di Lavagna manteneva con la c.d. “casa madre”, di cui deve, quindi, considerarsi emanazione”.
4) Il sostegno elettorale fornito al candidato Sindaco Giuseppe Sanguineti, al fine di ottenere varie utilità come contropartita.
La raccolta di voti veniva promossa da Gabriella Mondello, ex parlamentare ed ex sindaco di Lavagna, tramite Paolo Nucera, in cambio di profitti di vario genere (attività di smaltimento rifiuti, pratiche edilizie, concessioni demaniali).
In una conversazione, Nucera “fa il conto” dei voti portati a Sanguineti, pari a 500, di cui 180 conquistati dal solo Talerico, eletto consigliere. Sanguineti, incontrando Nucera, afferma di avere dato al Talerico – pur facendo intendere che non è persona preparata – la delega al demanio e al patrimonio (non avendo potuto conferirgli l’assessorato all’ambiente in quanto persona che “nel giro di poco sarebbe finito nei guai”). “Il conferimento – sostiene il Giudice – a Talerico della delega al demanio e al patrimonio, nonostante la ritenuta incompetenza, è espressione della disinvoltura ed assenza di azione politica da parte del sindaco ed è dimostrazione del fatto che lo stesso, a fronte dei voti raccolti grazie alle famiglie calabresi, dovesse accontentare gli esponenti, che lo avevano sostenuto”.
5) La gestione dei rifiuti: il sindaco, pur consapevole della scorretta modalità di gestione dell’Ecocentro da parte della famiglia Nucera, continua ad affidargli la gestione dei rifiuti. Scrive il Giudice: “Nonostante le segnalazioni ricevute, nonostante quanto constatato con la visione dei filmati, l’amministrazione comunale, giungeva in prossimità della scadenza del contratto senza adottare alcuna soluzione alternativa e, di fatto, era costretta alla proroga del contratto. Si realizzava, così, per la famiglia Nucera, la contropartita dei voti raccolti a favore di Sanguineti e del suo gruppo”.
I funzionari del Comune, infatti, avevano fatto installare un sistema di videosorveglianza per riprendere le operazioni di carico e scarico dei rifiuti indifferenziati. Dalle immagini filmate, risultava che in più occasioni venivano gettati rifiuti di generi diversi, anche pericolosi, destinati ad essere avviati alla discarica di Scarpino. Tale commistione aumentava il peso del rifiuto e, conseguentemente, il ricavo di Autotrasporti Nucera s.n.c., secondo quanto previsto nel contratto di subappalto (con grave danno per il Comune!). Ciò nonostante, la giunta continuò ad assecondare questa prassi.
6) La mancata demolizione della veranda del Bar Ostigoni, in spregio alla sentenza del Consiglio di Stato. Si tratta di un episodio più marginale, ma emblematico del rapporto sinallagmatico che legava il Sindaco alla comunità comunità calabrese di Lavagna. Il bar infatti apparteneva ad Ettore Mandato, soggetto molto vicino ai Nucera.
7) I favori concessi ai c.d. “ombrellonai” (Squadrito, Gentile, Felletti, Casazza, tutti “grandi elettori” di Sanguineti), ai quali veniva concesso di poter sistemare gli ombrelloni e le sdraio sull’Aurelia. Non veniva adottata alcuna sanzione per l’occupazione abusiva e, nonostante le plurime segnalazioni dei titolari di stabilimenti balneari, l’amministrazione non interveniva in alcun modo. Solo il 24 novembre (a stagione balneare ampiamente terminata) veniva ordinato di rimuovere i manufatti abusivamente collocati sull’area demaniale, salvo poi, l’anno successivo, rinnovare le autorizzazioni.
8) Infine, ma non per ordine d’importanza, l’utilizzo di uno spiccato metodo mafioso, in particolare nell’ambito dell’attività usuraia, operata principalmente da Francesco Antonio Rodà, il quale era giunto a costringere le proprie vittime a cedere l’attività, gli appartamenti, i box.
Gli usurati sapevano di trovarsi di fronte a soggetti “pericolosi” e non denunciavano i propri aguzzini, per paura di ritorsioni. Un commerciante, che aveva ricevuto un prestito di 10’000 euro, affermava: “Ho paura di riferire il nome di questa persona perché, da come si sente dire in giro, viene considerata una persona di “massimo rispetto”.
Uno degli imputati (Paltrinieri), in un’occasione, si rivolgeva ad un soggetto minacciandolo “che sarebbe volato giù da un viadotto, così imparava ad essere inadempiente con gente come loro”.
In una conversazione, Francesco Antonio Rodà è ancora più esplicito: “Te lo mando a casa storpiato io, ve lo giuro, ve lo giro che non ne ho voglia però ve lo mando storpiato a casa”.
Ad avviso del Giudicante tuttavia – al di là di questi episodi drammatici – il “metodo mafioso” e l’assoggettamento risultano provati non tanto dalle esplicite condotte, minacciose o violente, quanto dalla consapevolezza mostrata (ora dai politici collusi, ora dalle vittime) del collegamento del gruppo in questione con la ‘ndrangheta calabrese.
La sentenza valorizza, cioè, in linea con la giurisprudenza più attenta, la fama criminale del sodalizio, anche a prescindere da concrete manifestazioni eclatanti (pur presenti nella vicenda di specie).
Come noto, quanto più una mafia è potente, tanto meno ha bisogno di dimostrarlo.
Una volta delineata, in tutte le sue sfaccettature, l’associazione criminale “ndrangheta” radicata in Lavagna, resta da provare, come chiarito storicamente dalla Cassazione, “la compenetrazione del singolo nel tessuto organizzativo del sodalizio”.
A questo proposito, risultano determinanti la partecipazione di Antonio Rodà a momenti associativi significativi, quali le riunioni tra sodali, in particolare la riunione del 16 marzo 2010, presso l’Hotel Ambra; le cerimonie funebri di affiliati o loro parenti, che rivestono un valore simbolico in quanto forme di “rispetto”, in particolare le esequie di Antonio Fiumanò e Cataldo Felleti; l’attività di sostegno logistico ai familiari dei detenuti di ‘ndrangheta appartenenti alla cosca Rodà/Casile di Condofuri; la condivisione di questioni relative alla struttura delle cosche contigue e alle vicende processuali degli affiliati di Condofuri. Altro elemento sintomatico emerso dalle indagini è costituito dalla circostanza che l’imputato era solito girare armato, come dimostrano le intercettazioni registrate durante il viaggio per recarsi al funerale di Antonina Pangallo e come conferma un testimone che ricordava di aver visto il Rodà estrarre una pistola a tamburo, che teneva sotto la giacca, all’interno del circolo biliardi di via dei Sivori.
Con riferimento all’altro reato contestato, la cessione di sostanze stupefacenti, la responsabilità del Rodà si evince, anche in questo caso, dalle numerose intercettazioni telefoniche e dalle dichiarazioni dei suoi clienti.
Antonio Rodà viene, quindi, condannato a 8 anni di reclusione per il reato di associazione di tipo mafioso e a 6 anni e 8 mesi di reclusione e al pagamento di 30.000 euro di multa per il delitto in materia di droga.
Infine, il Giudice riconosce il risarcimento dei danni in favore del Comune di Lavagna, costituitosi parte civile: non vi è dubbio che la presenza e l’operatività della ramificazione della ‘ndrangheta in Lavagna – con successivo scioglimento del consiglio comunale e insediamento del Commissario straordinario – abbiano cagionato un evidente danno all’immagine e al prestigio dell’amministrazione, nonché danni patrimoniali relativi agli esborsi che dovranno essere sopportati per ridare credibilità alle istituzioni e per la ripresa delle attività economiche locali.