Il 7 ottobre 2014, come già documentato, il Tribunale d’Imperia ha emesso una sentenza storica, che ha riconosciuto per la prima volta l’esistenza della ‘ndrangheta nel Ponente ligure, radicata in due distinti locali, a Ventimiglia e Bordighera.
L’8 gennaio 2015 sono state rese note le motivazioni del provvedimento: 677 pagine, in cui i giudici, che si sono equamente distribuiti la fatica della stesura, hanno scrupolosamente documentato una lunga serie di episodi criminali, fornendo una nitida fotografia dell’associazione di tipo mafioso.
E’ da apprezzarsi, in particolare, la solida argomentazione giuridica che fonda gli aspetti più significativi della decisione (la prova del reato associativo, delle singole condotte di partecipazione ed il, mancato, “concorso esterno” di due imputati) e la paziente descrizione dell’operato dei singoli affiliati, a partire dal quale viene ricostruita con efficacia l’esistenza di un’organizzazione criminale.
In generale, può affermarsi che il Tribunale si è attestato su posizioni tradizionali, ampiamente condivise in dottrina e giurisprudenza; ha evitato qualunque interpretazione innovativa, con l’esplicito obiettivo di fornire un solido impianto alla decisione, idoneo a reggere il giudizio di appello.
La motivazione sviluppa tre temi fondamentali: 1) l’inquadramento dell’art. 416 bis: gli elementi strutturali della fattispecie ed i problemi probatori che essa solleva; 2) il locale di Ventimiglia: l’associazione mafiosa guidata da Marcianò (capo A) ed i singoli delitti-fine; 3) il locale di Bordighera (capo A-bis): il sodalizio criminale dei Pellegrino-Barilaro e le varie condotte delittuose.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il Collegio passa in rassegna le più recenti pronunce della Suprema Corte, in tema di associazione mafiosa, che si sono soffermate sulla verifica del metodo mafioso (forza d’intimidazione-assoggettamento-omertà). Il Tribunale di Imperia sposa l’interpretazione più tradizionale (cfr. da ultimo Cass., Sez V, 13 febbraio 2006, n° 19141, Bruzzaniti; Cass., Sez II, 24 aprile 2012, n° 31512, Barbaro), che esige un’esteriorizzazione di tale metodo e la prova concreta della fama criminale del sodalizio.
Viene invece respinto, perché non aderente alla lettera della norma, l’orientamento innovativo della Cassazione, che era emerso in alcuni procedimenti cautelari (Cfr. Cass., Sez. II, 11 gennaio 2012, n° 4304, Romeo; Cass., Sez. I, 10 gennaio 2012, n° 5888, Garcea): partendo dal presupposto dell’unitarietà della ‘ndrangheta (recente acquisizione del processo calabrese Crimine), si consentiva di trasferire il metodo mafioso dall’associazione tradizionale alle cellule figlie e di provare dunque, implicitamente, tale requisito, una volta dimostrato il collegamento del locale con la “Mamma”.
Per quanto concerne la consorteria di Ventimiglia, vengono documentati numerosi episodi delittuosi: l’usura subita da Alessandro D’Ambra (che dichiarò, in dibattimento, di avere paura delle conseguenze delle sue dichiarazioni) e da Gianni Trifoglio (a cui Pino Gallotta disse “Se non paghi ti brucio la casa”); la tentata estorsione al costruttore Parodi (la cui Suzuki Vitara fu colpita da otto colpi di fucile, per mano di Nunzio Roldi), finalizzata ad assicurarsi una percentuale sul movimento-terra legato alla costruzione delle banchine del porto.
Emergono inoltre stretti legami tra il gruppo di Ventimiglia e i clan della Calabria (Piromalli e Mazzaferro in particolare). In un caso i Marcianò si recarono dalla titolare dell’Hotel Piccolo Paradiso di Vallecrosia, Carla Bottino, per indurla ad omettere la registrazione di Piromalli Gianluca, Romagnosi Cosimo e Ciurleo Giuseppe, tre ‘ndranghetisti in visita al Nord.
In un’altra occasione, i ventimigliesi ospitarono Domenico La Rosa, un sicario, venuto dalla Calabria per vendicare la morte di Vincenzo Priolo, freddato da un tal Vincenzo Perri. Quest’ultimo, dopo il delitto, si era dato alla fuga verso la Liguria, sicché i compaesani di Ponente si erano attivati per risolvere la faccenda. “Papà, se lo troviamo qua, che non scenda più sotto. A questo bastardo lo dobbiamo fermare” diceva Vincenzo Marcianò al padre Peppino.
Vengono inoltre descritti intensi rapporti con la politica: Marcianò si era speso in particolare per sostenere la candidatura alle Regionali del 2010 di Alessio Saso e Fortunella Moio ed aveva propiziato l’elezione di Armando Biasi a sindaco di Vallecrosia (dove aveva scelto addirittura, pare, i candidati della lista!). Punto di ritrovo tra politici e malavitosi era il ristorate “Le Volte”, dove si organizzavano frequenti cene elettorali: in queste occasioni, scrivono i giudici, si assiste ad una “processione di personaggi di vario genere, pregiudicati di origine calabrese, persone comuni, imprenditori, che si rivolgevano all’ottantenne Marcianò per la soluzione di qualsiasi problema”, dal recupero crediti alle raccomandazioni, passando per la richiesta di protezione.
L’aspetto più controverso del processo riguarda l’affaire Marvon, una cooperativa sociale “di tipo B”, in mano al clan intemelio (come l’acronimo inequivocabilmente dimostra: Marcianò Allavena Roldi Vincenzo Omar Nunzio), cui vengono affidati in via diretta numerosi appalti pubblici. Gli inquirenti contestano in particolare tre opere assegnate dal Comune di Ventimiglia, relative al Mercato Coperto e al rifacimento dei marciapiedi di Lungo Roja e Corso Genova. Tali appalti vengono qualificati come “servizi”, mentre in realtà si tratta palesemente di “lavori”. L’assegnazione diretta, senza gara, sarebbe dunque possibile, ex art. 125 d. lgs. 163/2006, solo per la prima opera (di valore inferiore alla soglia consentita dei 40.000 euro), ma vietata per le altre due (ben più onerose). Anche il primo appalto, peraltro, era irregolare, poiché presentava la violazione: dell’art. 28, c. 2, d.p.r. 34/2000, che impone alle ditte assegnatarie il possesso di determinati certificati in tema di ambiente/beni culturali, documenti di cui la Marvon era sprovvista.
Nonostante le violazioni amministrative, il Collegio decide però di assolvere gli imputati Scullino (ex sindaco) e Prestileo (dirigente generale del Comune), dalla duplice accusa di abuso d’ufficio aggravato e concorso esterno in associazione mafiosa. Per quanto riguarda la prima imputazione, il fatto non costituisce reato poiché le irregolarità, pur accertate, non erano sorrette dall’elemento soggettivo del dolo, ovvero dalla volontà di favorire esclusivamente l’interesse di un privato, a scapito del bene pubblico. Con riferimento al concorso esterno, la rigorosa giurisprudenza sul tema (cfr. Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, n° 33748, Mannino) esige la prova di un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario che si configuri come condizione necessaria per il rafforzamento o il mantenimento del sodalizio. Tutto ciò, ad avviso dei giudici, non era ravvisabile: Scullino e Prestileo non sapevano che dietro la Marvon vi fosse la ‘ndrangheta.
E veniamo alla terza parte del provvedimento, relativa a Bordighera, in cui viene ricostruita l’esistenza di un locale che, nel tempo, si è guadagnato una certa autonomia (ed anzi, emerge a più riprese l’insofferenza di Marcianò per la rumorosità dei proprio “cugini”). Vi è un primo problema: i capi del sodalizio della città delle palme sarebbero Francesco e Fortunato Barilaro, Michele Ciricosta e Benito Pepé, tutti assolti in primo grado in Maglio 3 (l’inchiesta sorella della D.D.A. genovese), mentre nella Svolta il pm Arena contesta la partecipazione all’associazione mafiosa a tre dei quattro fratelli Pellegrino (Maurizio, Giovanni e Roberto) e ad Antonino Barilaro. Come coniugare questi differenti esiti processuali? Il Tribunale risolve l’apparente incongruenza con grande acume: il processo Maglio 3, celebratosi in rito abbreviato, non ha consentito un’approfondita istruttoria ed è culminato con l’assoluzione degli imputati con la formula dubitativa di cui all’art. 530, c. 2, c.p.p. (che si utilizza quando la prova manca, è insufficiente o contraddittoria).
Diversamente, nella Svolta si è proceduto in rito ordinario, potendo così accertare, nel dettaglio, i numerosi delitti-fine commessi dagli associati (tali reati, peraltro, sono normalmente posti in essere dai meri partecipanti, non dai capi dell’organizzazione. Non deve sorprendere che i capi del sodalizio, processati in Maglio 3, non commettano personalmente, poniamo, un’estorsione; costoro si occupano prevalentemente di questioni organizzative e politiche!).
I Pellegrino hanno, tutti, precedenti per traffico di droga e/o detenzioni di armi e sono considerati molto vicini alla cosca Santaiti-Gioffré di Seminara (RC).
L’accusa documenta numerosi episodi criminali: la tentata estorsione a Gianni Andreotti, finalizzata ad acquisire l’agriturismo “Del Povero” (con tanto di pestaggio della vittima e una testimone oculare, Brunella Mocci, terrorizzata all’idea di dover raccontare ciò che aveva visto: “Quelli sono mafiosi…”); le minacce subite dagli Assessori Sferrazza e Ingenito, non troppo entusiasti di concedere l’autorizzazione all’apertura di una sala giochi su cui avevano messo gli occhi i Pellegrino; altre minacce subite dall’ispettore di polizia Rocco Magliano (Roberto Pellegrino: “Ti scanno, so dove abiti”), dal M.llo Cotterchio (da parte di Antonino Barilaro), dal giornalista Tenerelli (Giovanni Pellegrino: “Se non scrivi cose giuste ti taglio le dita della mano”).
Poi vi sono gli incendi dolosi a danno della Tesorini e della Negro di Bordighera, due ditte di movimento-terra concorrenti della Fratelli Pellegrino s.r.l.; ancora, l’assistenza offerta al latitante Carmelo Costagrande, ospitato e nascosto nella città delle palme, fatto per il quale Maurizio Pellegrino era già stato condannato per favoreggiamento personale aggravato; numerosi episodi di cessione di sostanze stupefacenti; infine cene e incontri elettorali, in particolare con Giovanni Bosio, il sindaco di Bordighera, ed Eugenio Minasso, già esponente di spicco di AN in Liguria.
Con riferimento alle singole condotte di partecipazione, il Tribunale si esibisce in una dotta premessa, squisitamente giuridica, sposando la teoria della “compenetrazione organica”, elaborata nella citata sentenza Mannino. Solitamente si distinguevano due modelli: il modello causalistico (secondo il quale la partecipazione consisterebbe in un contributo apprezzabile recato al sodalizio) e quello organizzatorio (per cui basterebbe l’adesione formale, la disponibilità ad agire); ma in realtà, come osserva correttamente il Collegio, il secondo modello esprime unicamente una massima d’esperienza, in virtù della quale all’affiliazione/disponibilità seguono necessariamente fatti e atti concreti. Nella vicenda de qua la partecipazione di numerosi imputati al sodalizio mafioso era senz’altro ravvisabile.
Infine, il Tribunale determina il trattamento sanzionatorio riservato agli imputati: 16 sono condannati per associazione mafiosa (oltre agli altri reati menzionati); 1 a titolo di tentativo (A. Macrì, che si era prodigato per ottenere il “battesimo”, dichiarandosi pronto a qualsiasi operazione, ma aveva incontrato il rifiuto di Marcianò, che lo riteneva troppo esagitato e pericoloso); altri 10 per fattispecie meno gravi; solo 9 vengono assolti da ogni addebito, tra cui i due “colletti bianchi” di Ventimiglia.
Seguono i risarcimenti alle parti civili (Comune di Ventimiglia € 600.000, Comune di Bordighera € 400.000, Regione Liguria € 300.000) e le confische a numerosi imputati (ex art. 416 bis, c. 7, c.p., la confisca obbligatoria delle cose pertinenti al reato, ed art. 12 sexies d.l. 306/1992, la confisca dei valori sproporzionati ed ingiustificati).