Maglio 3 è la madre di tutte le inchieste di ‘ndrangheta che hanno interessato il nostro territorio negli ultimi anni. Ripercorriamone brevemente il complesso sviluppo processuale:
- il 9 novembre 2012 il Tribunale di Genova, in rito abbreviato, ha assolto tutti gli imputati, con formula dubitativa;
- il 19 febbraio 2016 la Corte d’Appello ha confermato le assoluzioni
- il 4 aprile 2017 la Corte di Cassazione ha annullato le assoluzioni, con rinvio alla Corte d’Appello per un nuovo giudizio;
- il 16 ottobre 2018 la Corte d’Appello di Genova ha pronunciato la condanna di 9 imputati su 10, uniformandosi al dictum della Cassazione.
Le motivazioni della condanna – che ha ribaltato il giudizio assolutorio formulato nel primo giudizio di merito – sono state depositate il 14 gennaio 2019 (est. Faraggi, Pres. Dello Preite) e meritano una rapida analisi.Anzitutto, la Corte d’appello ha fatto riferimento all’esito di altri procedimenti giudiziari: Crimine, celebrato in Calabria, che ha visto la condanna per associazione mafiosa di Gangemi e Belcastro, due soggetti stanziati a Genova; e La Svolta, celebrato in Liguria, che ha accertato la presenza della ‘ndrangheta nel ponente ligure. Maglio 3, idealmente legato alla Svolta, ha visto alla sbarra “l’esercito” di Gangemi, gli uomini che in Liguria hanno costituito i principali locali di ‘ndrangheta.
Come noto il GUP in primo grado – pur riconoscendo che gli imputati fossero ‘ndranghetisti – aveva concluso per l’assoluzione, ritenendo non provate le caratteristiche mafiose del sodalizio in Liguria: non vi era prova, cioè, dell’utilizzo, in Liguria, dello specifico metodo mafioso.La Corte d’Appello inizialmente aveva condiviso tale lettura riduttiva del fenomeno, sposando una visione folkloristica della ‘ndrangheta, incentrata sul mero legame geografico tra conterranei e sul sostegno elettorale di candidati calabresi, in quanto paesani.
La Cassazione tuttavia – richiamandosi agli orientamenti giurisprudenziali in materia – ha annullato le assoluzioni, evidenziando come non siano affatto necessarie manifestazioni eclatanti della mafiosità del sodalizio; non serve dimostrare la commissione di reati-fine, bensì è sufficiente che la capacità intimidatoria della consorteria sia potenziale. E’ ben possibile, infatti, che l’organizzazione mafiosa preferisca adottare modalità di azione più subdole e silenti (ma non per questo meno pericolose); l’art. 416 bis è reato di pericolo ed in presenza di cellule delocalizzate è sufficiente dimostrare un legame con la casa madre (la ‘ndrangheta calabrese), per poi ricavare e trasferire, attraverso un criterio logico-induttivo, l’apparato strutturale-strumentale dalla “Mamma” alle cellule figlie.
La Suprema Corte aveva raccomandato, in particolare, la “valutazione complessiva e non parcellizzata degli elementi emersi”, anche sulla scorta delle recenti acquisizioni: la comprovata unitarietà della ‘ndrangheta e la sua struttura verticistica. Domenico Gangemi si rapportava abitualmente, del resto, coi capi della ‘ndrangheta stanziati al Sud: era contraddittorio condannare lui e assolvere, al tempo stesso, i suoi uomini operanti in Liguria. In sintesi, la Cassazione ha cassato con rinvio il primo appello perché non ha tratto le logiche conseguenze dal materiale raccolto, riducendo tutto a simboli, cortesie, tradizioni.
La Corte d’Appello, chiamata a rinnovare il proprio giudizio, ha ripercorso il materiale probatorio (intercettazioni ambientali, servizi di ocp); quanto alle documentate riunioni tra affiliati (a Bosco Marengo, Giambranca, Lavagna), è stata sottolineata la evidente manifestazione di operatività del sodalizio. In tali momenti di incontro, sono stati accertati riti di affiliazione (“battesimi”) e conferimento di cariche (“doti”)*; è stata dimostrata la partecipazione di soggetti già condannati in via definitiva per mafia; si è sottolineata la segretezza del contesto ed il costante timore di essere scoperti. Non si è trattato di pranzi conviviali, ma di un “comportamento concludente indizio di partecipazione al sodalizio”. Per dimostrare la partecipazione all’associazione mafiosa non serve la commissione di particolari atti criminali, ma l’adesione al programma del sodalizio, che può avvenire nelle forme più diverse.
Curiosamente, i due Barilaro, Ciricosta e Pepé sono accusati, in Maglio 3, di essere affiliati alla locale di Ventimiglia; ne La Svolta sono ritenuti, invece, i capi della contigua locale di Bordighera. Ma poco importa: si tratta comunque di soggetti attivi nel ponente ligure e di sicura affiliazione (tre su quattro partecipano, peraltro, al funerale di Antonio Rampino, ritenuto lo storico capo della ‘ndrangheta a Genova e archiviato nella prima indagine del 2000).
Battista, Bruzzaniti, Garcea, Multari, e Nucera (Lorenzo) sono protagonisti di diverse conversazioni che fanno palese riferimento a contesti e dinamiche di ‘ndrangheta (ad es. come gestire l’adulterio della moglie di un affiliato detenuto); sono citati spesso da Gangemi, intercettato, e frequentano il suo ortofrutta in Piazza Giusti a Genova. Bruzzaniti, per esempio, rivendica con orgoglio di aver rischiato la vita e la galera per la Calabria; Garcea è il vero e proprio braccio destro di Gangemi, vanta una storia criminale consumata ed è attivo nell’usura.
L’unico imputato che viene assolto è Antonio Romeo, poiché sono scarni i riferimenti a lui nelle intercettazioni e non sempre univoci. E’ ritenuto esponente di spicco della locale di Sarzana, ma il materiale raccolto non giustifica una condanna.
Il metodo mafioso, sottolinea la Corte, viene esplicitato nel sostegno elettorale ai tre candidati alle regionali del 2010: Alessio Saso, Aldo Praticò e Fortunella Moio. Emerge chiaramente come i vertici dell’associazione, in Calabria, fossero sempre informati sugli sviluppi elettorali in Liguria e avessero dato il proprio assenso all’attribuzione dei pacchetti di voti. Si è provata, in particolare, la capacità del sodalizio ligure di movimentare centinaia di voti, a prescindere dal colore politico, ma sempre dopo aver saggiato la serietà dell’impegno assunto dal politico nei confronti dell’associazione. Non si è trattato di un mero sostegno a candidati “della propria terra”, come erroneamente ritenuto nel primo appello, ma di voto di scambio, teso ad ottenere nelle Istituzioni uomini del proprio contesto. I candidati, del resto, hanno dimostrato di essere pienamente consapevoli di rapportarsi con l’organizzazione mafiosa.
Per tutte queste ragioni la Corte d’Appello ha dichiarato 9 imputati colpevoli di associazione mafiosa e – in virtù della diminuente per il rito – ha condannato i due Barilaro, Ciricosta e Pepé a 6 anni di reclusione; Nucera, Multari e Bruzzaniti a 4 anni e 8 mesi; Battista a 3 anni, 1 mese e 10 gg.; Garcea a 7 anni, 9 mesi e 10 giorni .
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