Di recente vi abbiamo raccontato che la Corte di Cassazione ha confermato in via definitiva le condanne del processo “i conti di Lavagna” sulla ‘ndrangheta nel Tigullio. Pochi mesi prima, nell’ottobre 2020, la Corte di Cassazione aveva invece posto la parola fine al procedimento “Maglio 3” sulla ‘ndrangheta in Liguria.
Ma facciamo un passo indietro: che cosa riguardava questo processo?
Il processo Maglio 3 ha visto coinvolti nove imputati, accusati del reato di associazione mafiosa, in quanto membri di un gruppo criminale (la cosiddetta “locale”) operante nel genovese e legata all’associazione mafiosa di origine calabrese chiamata ‘ndrangheta.
Nel primo grado di giudizio, il Tribunale di Genova aveva come noto assolto gli imputati, ritenendo che – benché fosse provata la loro affiliazione all’organizzazione criminale – la mancanza di comportamenti apertamente intimidatori caratterizzanti il metodo e la mancata commissione di reati connessi al fine criminale dell’organizzazione stessa impedissero di considerare sussistente il reato in questione: si sosteneva, in altre ed ormai famose parole, che «fare gli ‘ndranghetisti» fosse cosa diversa dal semplice «essere ‘ndranghetisti» e che solo nel primo caso gli imputati potessero essere considerati colpevoli. In secondo grado, la Corte d’Appello di Genova aveva confermato quanto affermato dal Tribunale.
Ma non c’era già stata una sentenza della Corte di Cassazione nel processo Maglio 3?
Sì, la sentenza numero 24851 del 4 aprile 2017. Con questa storica sentenza, la Corte di Cassazione aveva ribaltato quanto precedentemente affermato da Tribunale e Corte d’Appello di Genova, dando specifico rilievo a due elementi in particolare:
- allo stretto legame fra il gruppo ligure e la cosiddetta “casa madre”, ossia con i vertici della ‘ndrangheta localizzati in Calabria;
- al tentativo di influenzare il voto nel corso delle elezioni regionali del 2010, attraverso un patto stretto con tre candidati, due dei quali indicati dalla “casa madre” calabrese ed una parente di un affiliato della locale di Ventimiglia: atto, questo, ritenuto dalla Corte perfettamente corrispondente alla finalità di controllo descritta dal comma 3 dell’art. 416-bis c.p. e quindi sufficiente ad integrare – in un contesto territoriale diverso da quello di origine dell’organizzazione criminale – il ricorso alla «forza di intimidazione del vincolo associativo» alla base del metodo mafioso.
- nonché alle risultanze emerse dai procedimenti “Crimine”, dov’era stato condannato il capo della locale genovese, e dei procedimenti “la svolta” ed “Albachiara”, concernenti le locali di Ventimiglia, Bordighera e del Basso Piemonte, tutt’e tre legate a quella genovese.
E allora perché la Corte di Cassazione ha pronunciato una seconda sentenza nello stesso processo?
Con la succitata sentenza dell’aprile 2017, la Corte di Cassazione aveva annullato – alla luce di quanto abbiamo visto sopra – la precedente sentenza assolutoria della Corte d’Appello di Genova, rinviando il giudizio ad una diversa sezione della medesima Corte d’Appello.
A questo punto, la Corte d’Appello ha pronunciato una nuova sentenza, questa volta seguendo la linea indicata dalla Cassazione, dando una diversa lettura del materiale probatorio, costituito da varie intercettazioni, pedinamenti ed osservazioni, che dimostravano inequivocabilmente come gli imputati avessero partecipato a riti ed eventi interni alla ‘ndrangheta, fossero intervenuti in questioni interne all’organizzazione ed avessero avuto ripetuti contatti con la “casa madre” calabrese; conseguentemente, la Corte d’appello in nuova composizione, dopo aver acquisito le sentenze degli altri procedimenti liguri come fatti notori, ha ritenuto accertata l’esistenza della locale di Genova, l’appartenenza alla ‘ndrangheta degli imputati ed i rapporti della locale genovese con la casa madre calabrese e con altre locali dislocate sul territorio nazionale.
Di fronte alla condanna intervenuta nel “processo d’appello-bis” gli imputati avevano dunque presentato un nuovo ricorso in Cassazione, negando l’esistenza di una locale genovese di ‘ndrangheta e l’effettiva sussistenza dell’esternazione del metodo mafioso (anche per la mancanza di un’effettiva capacità di condizionare il libero esercizio del voto nel corso delle elezioni regionali del 2010) e della capacità intimidatoria, e ritenendo che in ogni caso la valutazione della «carica intimidatoria» di una locale di ‘ndrangheta dovesse riferirsi esclusivamente alla singola locale e non basarsi anche sui legami di questa con altre locali o con la “casa madre”;
Ebbene, nuovamente interrogata sul punto, la Corte di Cassazione (sentenza 35797 del 28 ottobre 2020) respinto tutti i ricorsi degli imputati. In particolare, la Corte ha ritenuto che la nuova sentenza della Corte d’Appello di Genova si basasse su approfondite valutazioni dei fatti e degli elementi di prova nonché su argomentazioni logicamente corrette, in piena conformità alle indicazioni contenute nella precedente sentenza della stessa Cassazione, dando specifico rilievo soprattutto alla «mancata dissociazione dal vincolo di adesione al sodalizio mafioso di appartenenza».
Si è chiusa così, dopo più di dieci anni dal suo inizio, la complessa vicenda giudiziaria sulla ‘ndrangheta a Genova.