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Sebastiano Cassia non è un uomo qualunque, non è un uomo come tanti. La notizia del suo arresto, avvenuto nei pressi di una gioielleria di via XX settembre, ha reso più brusco il risveglio della città. Sembrerebbe l’ennesimo indizio della presenza delle mafie sotto la Lanterna (anche se, nel caso di specie, la vicenda è estremamente nebulosa, in virtù del particolare status del soggetto).


Sempre a Genova, a ottobre scorso, era stato arrestato, al termine di un inseguimento poliziesco, il rampollo dei Bellocco, una delle famiglie più importanti della piana di Gioia Tauro. In passato, come ampiamente documentato, il centro storico è stato soggiogato da alcune decine di Cosa Nostra e dalle ‘ndrine coinvolte nelle sanguinose faide di inizio anni ’90.
Genova, insomma, è sempre stata un crocevia di clan. Il porto di Genova, città di mare, ha costituito lo scalo naturale di chili, quintali, tonnellate di droga (nel 1994, in una sola operazione, furono sequestrati 5.000 kg di cocaina).
Genova, ora, potrebbe essere entrata nel mirino di Mafia Capitale.

Ma torniamo all’uomo, Sebastiano Cassia. Originario di Siracusa, affiliato ai Santapaola (il cui padrino Benedetto, “Nitto”, sedeva nella Commissione), divenne la testa di legno dei mafiosi nella Capitale. Cassia vanta un discreto pedigree criminale: droga, estorsioni, molti anni di carcere alle spalle.
Finché, un giorno, disperato e convinto di essere spacciato, decide di collaborare.
Si presenta spontaneamente all’Autorità. E’ lui a squarciare il velo sulla mafia a Roma. Le sue rivelazioni sono alla base di due diverse e fondamentali inchieste: quella sul Municipio di Ostia, letteralmente in mano ai clan Triassi, Fasciani e Spada; e quella rinominata “Mondo di Mezzo”, che ha sdoganato il termine “Mafia Capitale”.
Non sono due inchieste banali. Sono due indagini che registrano, per la prima volta, l’utilizzo del 416-bis c.p. in relazione a fatti avvenuti nel territorio romano. Non è un caso che a coordinarle sia Giuseppe Pignatone, già Procuratore Capo di Reggio Calabria e guida della D.D.A.
La magistratura, grazie alle propalazioni di Cassia, ricostruisce l’esistenza e l’operatività di varie associazioni mafiose. In un caso (quello di Ostia) sono prevalentemente dedite ad estorsioni, usura, traffico internazionale di stupefacenti, infiltrazione nel tessuto amministrativo.
Nell’altro (quello di Buzzi & Carminati), sono organizzazioni che riuniscono terroristi, delinquenti comuni, cooperatori sociali, uomini politici, con un obiettivo ben preciso: la sistematica spartizione di appalti lucrosissimi (dal verde pubblico, al rifacimento della pavimentazione stradale, alla gestione degli immigrati, tutto è business. Come Buzzi afferma chiaramente in un’intercettazione, si tratta di affari che oramai rendono più della droga).
Rispetto alla prima indagine, tutto sommato circoscritta ad alcuni clan ben definiti (pur nella compiacenza di qualche Istituzione), la seconda presenta un elemento di straordinaria (e maggiore) gravità: la schiera di politici a libro paga del sodalizio, che determina un inquinamento cronico della procedure. Consiglieri comunali, consiglieri regionali, Assessori, Dirigenti.
Ma c’è un elemento comune alle due indagini: la presenza di una criminalità che, pur senza rinnegare il proprio passato (intimidatorio e violento), ha iniziato a percorrere nuove frontiere di profitto, in modo meno appariscente, ma più redditizio.
Gli affari necessitano di tranquillità. Si tratta di oliare gli ingranaggi. Meccanismi di tipo corruttivo-collusivo vanno soppiantando la tradizionale prevaricazione.
Sebastiano Cassia racconta la spartizione di Ostia, che avviene con il solito schema mafioso: prima un attentato (al boss Vincenzo Triassi), poi il summit (tra il 2010 e il 2011) della pacificazione: i Triassi vengono gradualmente estromessi dagli interessi criminali di Ostia, in favore dei Fasciani e degli Spada, che si impadroniscono di tutto il litorale.
Ma Cassia è anche un fedelissimo di Benedetto Spataro, uomo vicinissimo a Carminati. Il collaboratore di giustizia spiega con gelida franchezza le dinamiche associative: “Che ne so, se serve de ammazzà qualcuno qua a Roma, Benedetto parlava pure con Massimo”.
Insomma, quando ai siciliani servivano informazioni, servizi, mezzi, favori sulla Capitale, Er Cecato era il riferimento, Cassia il collegamento.
La parabola di Cassia è stata raccontata nel dettaglio da Lirio Abbate, giornalista de L’Espresso, l’11 giugno del 2014.
Si presentò autonomamente alle forze di polizia, dicendo «Aiutatemi, mi vogliono uccidere». La sua testimonianza è divenuta centrale nel maxi processo che ha visto le prime condanne per 416-bis (in attesa del verdetto sul “Mondo di Mezzo”).
Cassia è un libro aperto: «I Fasciani subentrano nelle attività economiche di Ostia costringendo i titolari a cedere le aziende, chi si rifiuta viene pestato a sangue. Più che riscuotere il pizzo cercano di mettere “sotto botta” le vittime, per poi prendersi le loro attività: non gli interessa incassare 500 euro al mese, a loro interessa l’attività commerciale. Perché i Fasciani con tutti i soldi che hanno potrebbero pure fare a meno di chiedere il pizzo, ma lo fanno ad Ostia per ricordare a tutti il loro “titolo mafioso”».
Eccolo, il 416-bis, nella sua portata più autentica. A Ostia si aveva una reale percezione della fama criminale dei Fasciani.
Accanto alle estorsioni, c’è l’utilizzo sistematico della violenza, che diviene anche “esemplare”, per tutta la cittadinanza: chi non si cede, viene preso a botte. La collettività è intimidita, succube, omertosa. Carmine Fasciani sembrava un vecchio boss di un paesino dell’Italia meridionale, rispettato da tutti, sempre pronto ad adoperarsi per garantire favori, nell’inerzia dello Stato. L’8 ottobre 2015 è stato condannato a 10 anni, quale capo-famiglia della mafia autoctona di Ostia.
Poi naturalmente c’è la droga: in questo settore il Fasciani è alleato col camorrista Michele Senese, che distribuisce la cocaina a Roma. E gli Gli Spada? Sono sempre “zingari”, come li chiamano, privi del prestigio dei Fasciani. Ma si sono guadagnati un posto nella rivendita della polvere bianca, sgomitando. D’altronde le faide non convengono a nessuno.
Sebastiano Cassia è da tempo entrato nel servizio di protezione. E’ un collaboratore di giustizia. E’ anche grazie a lui se la magistratura ha potuto compiere una repressione così efficace. Ma si trovava a Genova, davanti a una gioielleria, in atteggiamento sospetto, con un altro individuo. Per questa ragione la commessa ha chiamato subito il 112, che è intervenuto e ha prelevato il “pentito”.
La domanda è semplice: che cosa ci faceva Cassia dalle nostre parti? La risposta sarà fornita dagli inquirenti, che sono già al lavoro, per scoprire eventuali opacità nel comportamento del collaboratore.