Ci siamo. L’ora è giunta. Domani la Corte d’Appello di Genova (nelle persone dei Giudici Mazza Galanti, Amisano e De Matteis) emetterà la sentenza di secondo grado nel processo Maglio 3, per quanto riguarda i dieci imputati con rito abbreviato. Domani sapremo se la ‘ndrangheta è radicata anche a Genova, a Lavagna, a La Spezia, e non solo nel Ponente ligure (come già accertato).
In primo grado il GUP Silvia Carpanini aveva pronunciato l’assoluzione per tutti, pur con la formula dubitativa del 530, co. 2, c.p.p. Tale sentenza ha un impianto senz’altro rigoroso, ma si fonda su un’interpretazione estremamente tradizionale dell’art. 416 bis, ormai in verità superata.
Il Giudice, pur scrivendo espressamente che “di ‘ndrangheta si parla nelle conversazioni intercettate” – e pur avendo accertato riunioni e riti di affiliazione – non ha riscontrato un concreto esercizio del metodo mafioso in loco, tale da giustificare la condanna per mafia.
Era il 9 novembre 2012. Da quel giorno, tante cose sono cambiate. Soprattutto sul fronte giudiziario. La Cassazione infatti ha compiuto due passaggi fondamentali, che hanno fatto discutere, ma che (almeno in teoria) dovrebbero aver delineato la corretta interpretazione della norma.
Innanzitutto, le Sezioni Unite – adite per risolvere il contrasto ermeneutico sulla “prova del metodo mafioso” – hanno rigettato la questione, ritenendo che non vi fosse, in realtà, alcun dubbio in proposito. Pochi giorni dopo, si è capito forse il perché di questa (sorprendente) decisione: nel processo Albachiara, la Suprema Corte si è compiutamente soffermata sulla struttura e sulle finalità dell’art. 416 bis, dettandone i criteri applicativi.
Il pm Lari, in tutto il processo d’Appello, ed ancora nelle repliche finali del 29 gennaio 2016, non ha fatto altro che richiamarsi a tale recente giurisprudenza, che rappresenta “lo stato dell’arte” sul tema.
Il paradosso di questo processo risiede nel fatto che accusa e difesa concordano nella ricostruzione dei singoli episodi. I fatti sono pacifici: la disputa si gioca unicamente sul fronte del corretto inquadramento giuridico delle varie vicende.
Ebbene, per il dott. Lari, in seguito alle pronunce del 2015 – emesse dal massimo organo giurisdizionale e nomofilattico – non vi può essere più dubbio alcuno: quando si parla di mafie storiche delocalizzate al Nord, il metodo mafioso risulta implicitamente provato, nel momento in cui viene dimostrato l’elemento organizzativo. Le varie cellule di ‘ndrangheta, sparse sul territorio nazionale, non hanno infatti bisogno di esercitare concretamente e continuamente minacce e intimidazioni, perché la loro stessa appartenenza all’organizzazione mafiosa (nota ovunque) garantisce loro la fama criminale.
La spendita del nome (mutuando una terminologia civilistica) è spesso sufficiente per generare quel clima di condizionamento diffuso che costituisce la cifra caratteristica del 416-bis. Anzi, come i più attenti osservatori hanno evidenziato, le mafie al Nord (soprattutto quelle più forti!) rinunciano a manifestazioni eclatanti, che hanno sovente l’effetto deleterio di attirare l’attenzione delle forze dell’ordine. Preferiscono muoversi sotto traccia, coltivando rapporti viscosi e sfruttando meccanismi di tipo corruttivo-collusivo: così perseguono ingenti profitti, in modo invisibile.
Ebbene, sulla base di questa impostazione che – si ribadisce – è stata avvalorata dalla Cassazione e posta alla base delle 19 condanne per i “piemontesi”, dovrebbe aversi analogo verdetto anche nei confronti dei “liguri”, sostiene Lari. Si sottolinea, peraltro, che tutti questi soggetti erano in costante collegamento, si frequentavano e si incontravano periodicamente: se i primi 19 sono stati dichiarati “mafiosi”, è francamente difficile ritenere che le persone che partecipavano, con loro, ad incontri e riti di affiliazione non lo siano (saremmo di fronte ad un obiettivo contrasto di giudicati, in senso sostanziale).
Il pm evidenzia, altresì, che nel procedimento sono emerse alcune logiche squisitamente mafiose, che bisogna avere la capacità di individuare: l’aura di rispetto e quasi di “terrore” che avvolge la figura del grande capo Gangemi (il quale è già stato condannato a 19 anni e 6 mesi per 416-bis!), nonché il diffuso senso delle regole, tipicamente mafioso, fatto di codici interni di onore, rispetto, sanzioni per le trascuranze. Il fruttivendolo di S. Fruttuoso veniva sovente interpellato per risolvere conflitti inter-individuali di ogni genere, da un lite per posti auto ad una spinosa vicenda di adulterio.
Nelle carte dell’inchiesta si rinvengono, ancora, numerosi summit degli affiliati, finalizzati a trovare un accordo in vista delle elezioni regionali del 2010: la partecipazione attiva della ‘ndrangheta alle consultazioni è documentata. Ci sono contatti diretti, per esempio tra Gangemi e Saso (poi effettivamente eletto): quest’ultimo cerca il consenso dei calabresi ponendosi come garante dei loro interessi. Analoghi rapporti vengono intrattenuti con Aldo Praticò, che non sarà eletto solo perché circa 500 voti verranno annullati, tutti per la medesima ragione (circostanza emblematica di un “voto concertato”, a pacchetti). La finalità politico-elettorale, prevista dal comma terzo dell’art. 416-bis, è ampiamente dimostrata pertanto.
E così conclude:
“Ci sono tutti i presupposti per pronunciare una sentenza di condanna, basta applicare in maniera piena e corretta i principi della Suprema Corte: infatti esistono più locali sul territorio ligure, che costituiscono diramazioni della ‘ndrangheta calabrese, in quanto sono in stretto contatto con la casa madre, ne rispettano pienamente le regole ed i rituali e, come tali, dimostrano una notevole capacità di intimidazione in sé. Al riguardo le conversazioni che ho appena citato dimostrano l’esistenza della capacità di intimidazione e per averne la conferma basterebbe chiederla (ma sappiamo che nessuno risponderebbe per omertà e paura) a tutti coloro che andavano a parlare con Mimmo Gangemi presso il negozio di frutta, a coloro che chiedevano denaro a Garcea, ai politici che chiedevano i voti sia a Genova che nel ponente ligure. Tutti queste persone potrebbero, se decidessero di “collaborare” con la giustizia, dichiarare che la “ndrangheta” in Liguria è viva e vegeta ed opera alla grande sul territorio. Chiedo pertanto la totale riforma della sentenza impugnata e la condanna di tutti gli imputati alle pene già richieste in primo grado”.