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28, 29 e 30 ottobre, 6 novembre 2015: per quattro udienze, l’aula bunker del Tribunale di Genova – in cui si celebra l’Appello del processo “La Svolta” – è stata teatro degli interventi difensivi dell’Avv. Marco Bosio, legale storico di alcune famiglie del Ponente ligure, in particolare i Marcianò di Ventimiglia e i Pellegrino di Bordighera.

Ha iniziato la sua arringa citando Kafka (“E’ il processo che a poco a poco si trasforma in sentenza”) e affermando, in conseguenza, che “brutti processi conducono a brutte sentenze”. Ha dominato istrionicamente la scena con espressioni da attore navigato, alternando registri differenti e modulando il timbro della voce per enfatizzare i passaggi ritenuti più pregnanti. Ma soprattutto, con pazienza e apparente convinzione, ha tentato di mettere in discussione ogni singolo addebito mosso a ciascuno dei propri dodici assistiti, contestando le lacune e la superificialità delle indagini, con un leit-motiv che ha accompagnato gran parte dei suoi discorsi: il reato associativo. Il vero spettro da allontanare in ottica difensiva, per la pena elevata che comporta.

Demolire l’impostazione dell’accusa, in punto 416-bis, si è rivelata la priorità dell’Avvocato intemelio: operazione meno proibitiva del previsto, alla luce della sentenza di primo grado (che ha sposato l’interpretazione più tradizionale della norma, la quale richiede una puntuale verifica circa l’utilizzo concreto ed esplicito del “metodo mafioso”: intimidazione, assoggettamento, omertà; diversamente, la Cassazione più recente, valorizzando l’elemento organizzativo, ha riconosciuto tale reato anche in capo ad una cellula di ‘ndrangheta nel Basso Piemonte ancora silente, solo potenzionalmente idonea a sprigionare la carica intimidatoria).

Con riferimento al caso del Ponente ligure, l’argomentazione del Difensore si è fondata su tre assunti:

-l’assenza di un vincolo tipicamente mafioso, giacché gli episodi delittuosi (ove sussistenti) sarebbero espressione di vicende settoriali specifiche, frutto di un agire meramente individuale;
-l’assoluta insussistenza del citato “metodo mafioso”, dal momento che in più di un’occasione, dalle intercettazioni, vengono evidenziate la frustrazione, la delusione o la contrarietà dei presunti affiliati – rispetto ad una molteplicità di vicende – ma non v’è mai traccia di iniziative connotate da violenza o minaccia.
-la mancata verifica delle condizioni di assoggettamento ed omertà: è innegabile che gli imputati condividano un certo substrato culturale, intriso di criminalità, ma ciò non avrebbe provocato quella generalizzata succubanza che rappresenta il discrimen tra un’associazione per delinquere comune ed il sodalizio squisitamente mafioso.
L’Avv. Bosio ha inoltre criticato l’utilizzo ossessivo dei brogliacci, in luogo della trascrizione integrale delle intercettazioni; il sacrificio/la compromissione del diritto di Difesa in una pluralità di circostanze; la fiducia incondizionata, da parte degli inquirenti, nei collaboratori di giustizia, a suo avviso del tutto inattendibili. Il tutto riassunto con la colorita espressione di “anemia probatoria”, che connoterebbe l’intero procedimento.
“La Svolta” affonda le proprie radici in inchieste precedenti – come lo stesso pm Arena ha documentato – che però avevano sempre condotto all’assoluzione degli imputati per il reato associative di tipo mafioso.
Nel “Colpo della Strega”, addirittura, era stata esclusa, finanche, l’associazione per delinquere semplice, pur con una motivazione contraddittoria.
Gli elementi della presenza mafiosa (forza di intimidazione del vincolo associativo e condizioni di assoggettamento e di omertà) devono intersecarsi con le finalità dell’associazione criminale, previste anch’esse nel 416 bis, ovvero:
-la commissione di delitti;
-l’acquisizione, in modo diretto o indiretto, della gestione o del controllo di attività economiche, appalti, concessioni, servizi pubblici;
-la realizzazione di ingiusti profitti o vantaggi, per sé o per altri;
-l’ impedimento del libero esercizio del voto.
La finalità economica è senza dubbio la più rilevante per le associazioni criminali, e specialmente per quelle moderne. Il profitto è, infatti, il vero obiettivo delle cosche; il delitto rappresenta un mero strumento, talora necessario, per consguire tale scopo. Sul punto, ha affermato Bosio, “il tenore di vita di numerosi imputati genera grandi contraddizioni. I Marcianò non sono certo abbienti!”.
Il pm ha ritenuto di individuare tale finalità nella vicenda “Marvon”, ma al di là di quella, ad avviso del Legale, “non abbiamo assolutamente altro”.
Dalle carte emergono, in realtà, anche altri soggetti legati all’imprenditoria ligure, come per esempio il costruttore Parodi, vittima di una tentata estorsione a colpi di fucile (per mano di Castellana e Roldi, già condannati per l’episodio); non vi sarebbe la prova però che il “mandante” dell’operazione fosse il vecchio boss Giuseppe Marcianò.
L’unica cosa che emergerebbe a suo carico, rispetto al porto di Ventimiglia, è l’interesse ad aprire un chiosco di gazzose, come si ricava dalle conversazioni con la moglie…
“Le organizzazione criminali vanno dove ci sono le operazioni grosse. Altri imprenditori hanno fatto i soldi nel ponente ligure, costruttori importanti…Ma non c’è una sola conversazione di Giuseppe Marcianò con queste persone! Quando la giurisprudenza parla di “soffocamento dell’economia” si riferisce a ben altre cose!”.
Riguardo all’affare MARVON, il problema principale – per il legale – è la riconducibilità della cooperativa a Peppino Marcianò. Ci sarebbe una conversazione in cui Egli dice espressamente, anzi, di non aver nulla a che vedere con la Marvon.
Secondo l’accusa, al contrario, da un’intercettazione del novembre 2011 si evincerebbe che Giuseppe Marcianò partecipava agli utili della società. Ma per l’Avv. Bosio si discuteva di come dividere le cose raccolte in campagna!
In relazione alla finalità elettorale, l’accusa avrebbe individuato un condizionamento di alcune elezioni comunali, nonché delle regionali del 2010.
Ma secondo il Difensore, in tale contesto si ha la prova della mancanza di un’azione concertata di gruppo: “Ognuno ha i suoi candidati e procede per la sua strada. La gestione è individualistica. Gangemi appoggia Praticò; Belcastro, Fortunella Moio;  Garcea si spende per Damonte Cinzia…”. Poi si interrompe: “Sento vociare il Pm… lo capisco, però sento il disappunto, mi deconcentro…”. Prosegue: Ci sono conversazioni in cui si parla di elezioni, non lo nego, ma ognuno ha i suoi candidati. C’è chi cerca di sfruttare il momento elettorale perché la comunità calabrese si muove in questo modo, ma non è sintomo di mafiosità. Si vuole accreditare il fatto che si va da Marcianò perché è capobastone. No! E’ solo perché li conosce, e sono poi tutti di liste diverse. Non prende in mano la situazione elettorale!”. Circa il condizionamento delle elezioni a Vallecrosia, l’Avvocato ricorda peraltro che la posizione del sindaco Biasi è stata archiviata a luglio.
Sui rapporti tra Giuseppe Marcianò ed il sindaco di Ventimiglia Scullino, l’Avv. Bosio non ha dubbi: “Certo che si conoscevano, è una cittadina piccola…Come si fa a non conoscere Scullino, “il signor stretta di mano”, che andava in giro tutto il giorno per la città? Il problema consiste nella verifica di eventuali rapporti illeciti/di favore: non c’è nulla, ad eccezione della vicenda Marvon (rispetto alla quale c’è il problema della riferibilità all’anziano Marcianò)”.
Viene ridimensionata anche la presenza di numerosi politici al ristorante Le Vele di Marcianò, a Vallecrosia: durante la campagna elettorale ci sono cene dappertutto, non sarebbe questo il condizionamento elettorale.

Non vi è tracca, neppure, del controllo del territorio, espressione storicamente utilizzata per identificare il radicamento mafioso: “Le attività criminali sono isolate. Prendiamo ad esempio il caso dell’usura ai danni di D’Ambra Alessandro, contestato a Marcianò e a Spirlì.
Il 6 marzo D’Ambra è costretto a chiedere un prestito da 15.000 euro, e due mesi dopo ne trova 25.000 da restituire. Il teste non riesce a dare una giustificazione di dove ha trovato questo denaro. Il processo di usura di solito si protrae molto nel tempo, mentre qui D’Ambra in due mesi riesce a trovare i denari. Tutte le volte che si discute di usura si pone il problema dell’attendibilità delle dichiarazioni della parte che ritiene di essere stata offesa. D’Ambra fa dichiarazioni in sede di incidente probatorio diametralmente opposte alle stesse dichiarazioni dei Carabinieri.
Riferisce di essersi recato insieme allo zio, D’Ambra Salvatore, nel locale di Marcianò Giuseppe, e di aver pranzato in presenza di due persone sconosciute. I Carabinieri non registrano il “passaggio della busta” descritto da D’Ambra”.
Per quanto concerne l’attentato subito da Parodi, il pm Arena ritiene che vi sia stato un intervento di Marcianò/Palamara, i quali avrebbero promosso l’azione, ma erano contrari alle modalità esecutive, rivelatesi eclatanti.
Ma eccepisce Bosio: “Come si fa ad essere d’accordo a fare una cosa e a non condividere le modalità esecutive? Cambia poco…Qui, al contrario, manca assolutamente la consapevolezza di Marcianò. Nei giorni successivi all’arresto di Roldi e Castellana, dalle conversazioni intercettate emerge un disappunto totale per l’accaduto, da parte di Giuseppe Marcianò e Palamara Antonio”.

Un argomento decisivo nell’impostazione accusatoria concerne la vicenda legata all’omicidio di Vincenzo Priolo, consumatosi in Calabria. Giuseppe Marcianò sarebbe intervenuto per aiutare i propri sodali a bloccare Vincenzo Perri, l’autore dell’omicidio, in fuga verso la Francia. Se ciò fosse vero, effettivamente spiegherebbe “l’associazione”, la dinamica malavitosa tradizionale del gruppo calabrese.
L’intervento di Marcianò si è effettivamente verificato – ammette persino l’Avv. Bosio (del resto, le intercettazioni sono inequivoche) – ma sarebbe un intervento a titolo personale, non in qualità di capo della locale. Coinvolgere un locale in una faida è una cosa molto particolare. Bisogna chiedere l’autorizzazione alla Mamma, a San Luca, e poi si coinvolge tutta la locale. Ma Marcianò non parla con gli altri! A volte ne parla con la moglie, per il resto cerca di darsi da fare a titolo personale; forse non avrebbe potuto farlo, è vero… Ma erano amici da anni…”.
L’Avvocato non può negare i rapporti tra le famiglie Marcianò-Piromalli-Priolo, che sono profondissimi: e qui, francamente, vi è un punto di debolezza nella propria linea difensiva. Non può ritenersi indefferente/neutro il fatto di avere rapporti solidi con individui pluripregiudicati per reati gravissimi, esponenti di prim’ordine della ‘ndrangheta calabrese.
E’ normale intervenire, finanche a titolo personale, in un caso di omicidio di chiaro stampo ‘ndranghetistico, consumatosi in Calabria?
La Procura ha evidenziato, in generale, il frequente interventismo di Giuseppe Marcianò, in una serie di questioni, dato che dimostrerebbe il condizionamento ambientale, una situazione talora soffocante.
Muoviamo dalla vicenda che vede protagonista Carla Bottino, l’albergatrice del “Piccolo Paradiso”, che omette di registrare la presenza di tre uomini calabresi, su richiesta di Marcianò. Prova a spiegare così l’episodio l’Avv. Bosio: “Ella avrebbe dovuto non rispondere in incidente probatorio, o almeno titubare, se fosse stata intimidita…e invece ha risposto serenamente, perché non aveva paura. Conosce i Marcianò da sempre: questi, proprio vicino all’albergo, avevano un bar, ci sono normali rapporti di conoscenza. Quindi non va collegato alla paura, non c’è metodo mafioso nel caso di specie”. E chiosa, con un’acrobazia forense: “La differenza è sottile – lo capisco – ma si è comportata così per fare un piacere ad un amico, non perché intimidita”.
Il fatto rimane però: perché non dovevano essere registrati quei tre soggetti? Non è un comportamento usuale (oltre ad essere illecito). La Bottino ha ricordato, peraltro, di essere stata pagata, per il soggiorno, da un Marcianò (altro fatto sintomatico…), anche se non ricorda se si trattasse di Giuseppe o di Vincenzo.

E’ molto particolare, ed ambiguo, anche l’episodio che coinvolge il dott. Cioffi (direttore di una filiale bancaria), il quale senza mezzi termini definisce “mafiosi” i Marcianò. Secondo l’Avv. Bosio, però, Egli manifesta un atteggiamento di sicurezza, di arroganza, nei loro confronti, non ha affatto paura. E’ seccato, addirittura, quando lo chiama la moglie di Marcianò, Elia Angela, che aveva un problema nel ricaricare la carta di credito del figlio Vincenzo. Il Cioffi replica brevemente: “Ho dieci persone alla cassa”. Conclude il Difensore: “Il fatto che poi, Cioffi, sia andato a casa Marcianò il venerdì dopo non vuol dire nulla, volevano fare una operazione”.
Un ultimo punto degno di nota concerne il reato di millantato credito, contestato al presunto boss in relazione alla vicenda di alcuni imprenditori interessati all’installazione di pannelli solari. L’Avvocato Bosio rileva un’evidente anomalia:
“Il reato di millantato credito è un reato anomalo in un contesto mafioso: come si può costruire la propria credibilità criminale sul millantamento/la truffa? Che credibilità ha un soggetto che millanta?”.
L’intervento di Giuseppe Marcianò è, peraltro, limitato alla fase iniziale di questa vicenda; ad un certo punto gli interlocutori non sono più interessati, perché viene meno la possibilità di accedere al credito.

Per quanto concerne gli imputati di Bordighera, occorre ricordare che, inizialmente, il pm aveva contestato l’esistenza di un’unica organizzazione, facente capo a Ventimiglia. Anche i Pellegrino, pertanto, avrebbero fatto parte di tale gruppo. Il Gip Cusatti, tuttavia, rigettò la richiesta di misura cautelare avanzata dal dott. Arena.
Il pm, allora, si allineò alla ricostruzione del Gip individuando un secondo locale di ‘ndrangheta (capo A-bis), a Bordighera.
I capi sarebbero Barilaro Fortunato, Barilaro Francesco, Pepé Benito e Ciricosta Michele: tutti già processati per 416-bis, e assolti, nell’inchiesta-sorella “Maglio 3”.
Pellegrino Giovanni, Roberto e Maurizio e Barilaro Antonino sarebbero invece i “partecipi”, imputati ne la Svolta: ma come potrebbe esistere un’associazione senza capi?
Il Tribunale di Imperia aveva risolto la contradddizione alla luce del differente rito con cui sono stati trattati i due procedimenti: il rito ordinario, seguito ne La Svolta, ha permesso un accertamento più rigoroso e approfondito dei fatti. D’altronde, il proscioglimento dei vertici della locale in Maglio 3 era avvenuto con formula dubitativa. Il problema è che, effettivamente, non sono verificati rapporti significativi tra i diversi imputati delle due inchieste.
Per Bosio, ancora una volta, saremmo di fronte – nella più grave delle ipotesi – a singoli reati-fine (soprattutto per Maurizio Pellegrino, 16 anni in primo grado).
Su Giovanni Pellegrino, poi, c’è un problema in più: nessun reato-fine gli è stato contestato. Non c’è traccia di battesimo. C’è forse una cena elettorale, ma che proverebbe? Le pagine che la sentenza dedica a Gianni sono poche: ci si fonda su precedenti penali (così come ha sempre fatto Arena). In particolare è stato condannato per un reato di prostituzione; assolto, invece, per le minacce ai politici; condannato per minacce a giornalisti; assolto anche per il danneggiamento alla ditta Tesorini.
Michele Pellegrino, unico dei 4 fratelli, era stato assolto già dal Tribunale di Imperia in primo grado: “Ma non vedo la posizione di Giovanni così lontana! Coinvolgimento è minimale”.

Dal punto di vista prettamente giuridico, merita di essere segnalato l’approfondimento operato dal collegio difensivo sull’aggravante di cui all’art. 7, d.l. 152/1991 (l’agevolazione mafiosa, contestata a numerosi imputati in relazione ad alcuni specifici delitti, come la detenzione di armi). La Cassazione, nel 2013 e nel 2014, ha precisato che è necessario il dolo specifico di favorire l’associazione, che deve costituire obiettivo diretto della condotta. Occorre accertare, pertanto, la diretta incidenza agevolatrice del comportamento, oggettivamente funzionale agli scopi del sodalizio. Ad avviso dei legali, il pm Arena ha applicato tale circostanza con una certa leggerezza, senza operare valutazioni specifiche.

E così, di fatto, il processo d’appello si avvia alle conclusioni. Il 9 dicembre sono previste le (eventuali) dichiarazioni degli imputati e a seguire i giudici si ritireranno in camera di consiglio. Come si sarà intuito, tutto si gioca sul piano dell’interpretazione delle prove: per l’accusa, si tratta di un mosaico granitico, nel quale ogni tessera – se collocata al posto corretto – consente di apprezzare il radicamento mafioso nel ponente ligure, ben oltre la soglia di mero pericolo richiesto dal norma; per le difese, siamo di fronte – al contrario – a pochi e singoli episodi delittuosi, di modesta entità; ad un legame di mera provenienza geografica, del tutto non assimilabile al vincolo di stampo ‘ndranghetistico, fondato sul crimine  violento e sanguinario, che ingenera terrore nella popolazione. Alla Corte d’Appello l’ardua sentenza.