1. Le inchieste e i procedimenti giudiziari più recenti (e non solo) sulla presenza della mafia in Liguria hanno messo in luce una verità ormai incontrovertibile: quella tra mafia e politica è una relazione biunivoca, un intreccio da sempre pericoloso. È infatti risaputo che, da un lato, le mafie hanno bisogno della politica, nazionale o locale che sia, al fine di ottenere norme, provvedimenti e comportamenti che consentano loro di proseguire attività illecite in modo più o meno indisturbato. Dall’altro lato, una politica sempre più screditata agli occhi dell’opinione pubblica e nel giogo dell’astensionismo necessita del consenso (e del voto) dei cittadini, e per ottenerlo è disposta a rivolgersi proprio a quei soggetti che, forse meglio di tutti, riescono a collezionare facilmente consensi, in un modo o nell’altro, specialmente nei territori più piccoli (emblematico è il caso di Lavagna, su cui torneremo).
2. Ma andiamo con ordine. Come possiamo definire quell’intreccio mafia – politica finalizzato al procacciamento di voti? In generale il fenomeno prende il nome di “voto di scambio”, ed allude ad un accordo corruttivo, in cui un politico (o un suo intermediario) corrisponde o promette ad altro soggetto denaro o altra utilità (come, ad esempio, un posto di lavoro) affinché questo secondo soggetto gli procuri dei voti. A livello normativo, il fenomeno è punito con sanzioni penali dal T.U. 361/1957 (per le elezioni parlamentari) e dal T.U. 570/1960 (per le elezioni amministrative). Le cose cambiano se il soggetto che promette di procurare i voti è un esponente dell’associazione mafiosa o un soggetto che, pur non appartenendo all’associazione, si impegna a procurarli mediante l’impiego delle modalità che connotano l’associazione mafiosa: intimidazione, assoggettamento ed omertà (cd. metodo mafioso). In questo caso la sanzione penale applicabile è quella ben più grave prevista dall’art. 416-ter del codice penale.
3. E in Liguria? Nella nostra regione le prime indagini sui contatti tra mafia e politica risalgono agli anni ’80, quando l’allora Presidente della Regione Teardo venne indagato e processato con l’accusa di aver siglato accordi con (futuri) esponenti della mafia ligure.
Così si esprime Marco Grasso nel libro “Punto e a Capo. Storie di mafia e antimafia in Liguria”:
“Per trovare traccia del primo politico ligure a cui è mai stata contestata l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa bisogna ritornare allo scandalo che negli anni Ottanta coinvolse l’allora presidente della Regione Alberto Teardo. Una vicenda che, secondo molti osservatori, può essere considerata a tutti gli effetti un’anticipazione di Mani Pulite. I reati di mafia contestati a Teardo sono tutti caduti. Ma è interessante notare la presenza di un personaggio destinato a ritornare sulla scena pubblica una trentina d’anni più tardi: Peppino Marcianò, lo stesso boss di Ventimiglia che ricompare trent’anni dopo nell’inchiesta Maglio e negli accertamenti che portano allo scioglimento dell’amministrazione. Nella sentenza Teardo sono citati infatti i pagamenti in contanti effettuati da Marcianò per comprare voti e un pizzino che secondo gli investigatori riconduceva a importanti famiglie malavitose del Ponente ligure”.
L’accusa nei confronti dell’ex Presidente è successivamente caduta. Sono, invece, in parte ancora in piedi le accuse mosse nei confronti di due ex consiglieri regionali (Alessio Saso, da poco rinviato a giudizio; Aldo Praticò, che ha patteggiato 18 mesi) i quali, secondo l’impianto accusatorio, avrebbero stretto accordi elettorali con Domenico “Mimmo” Gangemi, conclamato e riconosciuto capo della locale di ‘ndrangheta genovese nell’ambito dei procedimenti giudiziari “Maglio 3” e “Crimine”.
Del pari, è ancora in corso l’accertamento che riguarda l’ex assessore della Regione Piemonte Roberto Rosso: secondo la sentenza del Tribunale di Asti, resa nel procedimento Carminius ma non ancora definitiva, l’ex assessore avrebbe comprato dei voti da un tal Onofrio Garcea. Se il nome non vi suona nuovo, avete buona memoria: trattasi infatti di un soggetto già condannato in via definitiva come esponente della ‘ndrangheta genovese nel processo “Maglio 3″, a dimostrazione di come la ‘ndrangheta ligure e la ‘ndrangheta piemontese siano più vicine che mai.
Definitiva è invece la condanna che ha interessato l’ex Sindaco di Lavagna, Giuseppe Sanguineti, e il capo della locale di ndrangheta lavagnese, Paolo Nucera. Secondo l’impianto accusatorio dell’indagine “i Conti di Lavagna”, poi confermato fino in Cassazione, in occasione delle elezioni comunali del 2014 l’ex Sindaco avrebbe ottenuto circa 500 voti grazie all’intervento di Paolo Nucera il quale, dopo l’elezione, si sarebbe fatto avanti per (tentare) di incassare il prezzo della sua intermediazione, richiedendo al neo-Sindaco una nomina ad assessore al demanio a lui gradita. Il tutto ricordando all’ex Sindaco, sotto i riflettori dell’intercettazione ambientale in corso, di essere un “uomo di parola”, di non gradire le “prese in giro” e di non essere “un pagliaccio” (leggi: Le motivazioni della sentenza “i conti di lavagna” (parte 3): cronache di una campagna elettorale“).
È importante precisare che, nel caso ora descritto, l’accusa non era quella di cui all’art. 416-ter, sopra citato, ma del reato di cui al T.U. 570/1960 (anch’esso sopra citato) in quanto, prima di una recente riforma legislativa, l’art. 416-ter puniva solo ed esclusivamente il procacciamento di voti mediante l’impiego del metodo mafioso, senza dare rilievo alla mera appartenenza all’associazione. Nel 2014 – e questo è l’aspetto più rilevante – Paolo Nucera procurò i voti all’ex Sindaco senza dover intimidire, minacciare o ricattare nessuno. Perché tutti sapevano chi era. All’epoca dei fatti, l’art. 416-ter non era quindi applicabile. Per contro, ad oggi, a seguito di una recente riforma, l’art. 416-ter risulta applicabile (anche) al caso in cui il procacciatore di voti abbia il mero status di (riconosciuto ed autorevole) esponente dell’associazione, ciò che di solito è più che sufficiente per ottenere consenso: è il concetto di mafia silente, magistralmente descritto dalla Cassazione nel procedimento “Maglio 3” come mafia che, senza necessità di ricorrere ad episodi eclatanti, si avvale “di quella forma di intimidazione per certi aspetti ancora più temibile che deriva dal non detto, dall’accennato, dal sussurrato, dall’evocazione di una potenza criminale cui si ritenga vano resistere”. La riforma dell’articolo testimonia dunque una, seppur tardiva, presa di coscienza da parte del legislatore di quello che davvero significa oggi essere un, ancor prima che fare il, mafioso.
Il caso di Lavagna è emblematico perché ci dimostra come l’intreccio mafia-politica sia ancor più pericoloso allorquando si manifesti in piccoli territori, dove anche 500 voti possono risultare decisivi, oltreché facilmente collezionabili, e dove la realizzazione degli interessi della mafia ha una portata più concreta ed immediata: non per niente, a Lavagna, la gestione (illecita) dei rifiuti era da decenni monopolio della famiglia Nucera.
4. Che fare dunque? Come possono sapere i cittadini per arginare il fenomeno? Inutile ribadire che gli elettori hanno un ruolo fondamentale nella lotta al voto di scambio ed alla corruzione elettorale, essendo necessario arrivare prima della magistratura, che dal lato suo interviene in un momento in cui il reato è già stato commesso, la legalità violata e la politica inquinata. Per svolgere al meglio questo delicatissimo compito, i cittadini hanno il dovere di monitorare, informandosi costantemente, l’attività, l’impegno e le battaglie di un politico, le sue frequentazioni e anche le sue vicende giudiziarie. Il tutto al fine di valutarne la coerenza e la correttezza e di giudicarli al momento delle tornate elettorali, bocciando senza appello chi si è mostrato debole, confuso o assente su certi temi o addirittura colluso con certi ambienti.